Fuori Opere in Parole
In questa sezione potete scoprire tutti i racconti dei partecipanti al concorso letterario per medici, infermieri e staff di Humanitas Gavazzeni e Castelli, a tema libero, dal titolo “Vuoi essere tu il 12° autore?”. I nuovi autori hanno quindi scelto un dipinto e si sono lanciati nella scrittura di una storia di fantasia. 19 le storie pervenute che hanno dato spazio dalle emozioni ai sentimenti, dal passato all’attualità, dalla riflessione all’ironia: il vincitore del concorso letterario interno, Giovanna Mennillo, è entrata a far parte della rosa degli autori di Opere in parole. In questa area tutti gli altri 18 bellissimi racconti del personale interno degli ospedali.

CONCHITA: un mastino dal cuore di leone
Ispirato all’opera di Pittore ligure
San Girolamo che leva la spina al leone
Come ogni mattina era fermo a fissare quella vecchia stampa appoggiata sulla mensola del camino, vecchia non antica: era stata acquistata dal nonno in un mercatino dell’usato e rappresentava San Girolamo che cura un leone ferito ad una zampa.
Non era certo un quadretto di valore: tutto il “valore” era racchiuso nell’immagine del leone, nella potenza delle sue zampe che contrastava con la dolcezza del suo affidarsi alle cure di un umano.
Per Fernandez quel leone però non era il felino della savana, per lui era uno dei suoi mastini spagnoli, anzi era tutti i suoi mastini spagnoli, cani per tutti ma leoni per lui, allevatore di pecore della regione spagnola dell’Estremadura, conosciuta per la tradizione della transumanza delle greggi. Si transumava ancora a piedi, in primavera, per portare le pecore e le capre in montagna; poi si ripartiva in ottobre per tornare in azienda, in pianura a inizio novembre. Fernandez, per quanto uomo moderno, preferiva il cammino a piedi, rifiutando il traporto con il treno, come molti ormai usano fare al giorno d’oggi, perché così i suoi ovini potevano, camminando, mangiare erba in abbondanza. O forse perché, inconsciamente, amava vedere lavorare i suoi cani nel loro mondo naturale.
Era però un modo di allevare duro, che il padre aveva ereditato dal nonno e che lui, Fernandez, aveva voluto completare aggiungendovi qualcosa di nuovo: l’allevamento del più antico e potente difensore delle greggi: il mastino spagnolo.
Era un amore, il suo, iniziato sin da bambino quando il nonno lo portava lungo i pascoli a cavallo. Fu così, a cavallo, fra le braccia del nonno, che li vide per la prima volta: cinque mastini, mimetizzati, con i loro mantelli chiari, fra le pecore anch’esse chiare, indistinguibili gli uni dalle altre, possenti e alteri come imperatori al centro del loro regno.
Il nonno amava raccontare al piccolo Fernandez la storia delle antichissime origini di questi fra i più grandi cani al mondo. Enormi, potenti e rustici sui terreni della transumanza ma allo stesso tempo gentili e affettuosi fra le mura domestiche, il nonno sosteneva discendessero dai Molossi dell’Epiro, a loro volta eredi dei cani di Foo, animali mitici dalla forma di leoni, cari al Buddha e destinati alla difesa dei suoi templi. Ogni luogo sacro ne aveva due: un maschio e una femmina, il primo rappresentato con una zampa sopra il globo terrestre, simbolo di potenza e di protezione, la seconda con un suo cucciolo, simbolo della vita.
Furono le leggende del nonno, le sue uscite notturne con lui, la vita in mezzo ai suoi cani che lo facevano sentire forte e protetto anche nella vastità delle distese dell’Estremadura, che Fernandez decise di allevarli. E questa scelta gli diede risultati soddisfacenti: la sua femmina Kira, l’anno prima, divenne campionessa di razza ai Mondiali di Milano. Un riconoscimento importante, anche se unico poiché, del resto, vi era un solo allevamento di questa razza al mondo, italiano per giunta, non spagnolo, che vinceva tutto, sempre, ad ogni mostra …troppo bravi erano quei monaci e quelle monache dalle tuniche colore del sole, cinofili competenti e profondi conoscitori della razza.
Erano diventati amici: Fernandez, il pastore dei tempi moderni che non voleva rinunciare all’antica usanza della transumanza e i monaci italiani induisti supertecnologici. Questi vivevano in mezzo ai monti, circondati da boschi e immersi nel profumo delle rose che crescevano ovunque e che loro curavano con lo stesso amore con cui allevavano i loro mastini, sia cuccioli che vecchi.
Era stato un vecchio e ciondolante mastino, Agamennone, elegantemente vestito con una giacca a vento azzurra, libero lungo i sentieri e i giardini del monastero, che aveva accolto Fernandez tanti anni addietro, per la prima volta in visita a quel luogo speciale, ricco di fiori, di statue e di cani. Lo spagnolo era arrivato per vedere i mastini, questi molossi italiani ben superiori a quelli spagnoli, e lì aveva vissuto per qualche giorno. Quando se ne andò, si rese conto che portava dentro di sé la sensazione nitida e penetrante che in quel posto c’era qualcosa che altrove non avrebbe mai più ritrovato e al quale non riusciva a dare un nome diverso da “divino”. Questo era l’allevamento dei campioni del mondo ma anche il centro di riferimento italiano di una fede antica che incontra il divino in ogni elemento naturale, dai fiori, all’acqua … ai grandi cani dell’Estremadura.
A loro doveva molto poiché essi gli avevano insegnato come selezionare cani potenti e maestosi ma anche agili e altruisti, capaci di dare la vita per difendere pecore e padrone dall’assalto dei lupi che spesso, anche di giorno, colti dalla fame, in una terra sempre più a loro ostile, aggredivano pecore e agnelli. A loro doveva inoltre un regalo bellissimo: la sua più amata mastina, Conchita. Lei aveva, oltre alla mole e alla bellezza della profondità dei suoi occhi, capacità comunicative di altissimo valore, derivanti da una grande intelligenza emotiva e relazionale: sapeva quando avvicinarsi a Fernandez per dargli e ricevere carezze, ma sapeva anche capire la sua stanchezza, standosene così in disparte, lontana da lui in quei momenti.
Conchita era inoltre una grande guerriera: preferiva il cammino fra le pecore, anche per tappe di chilometri al giorno e la lotta contro i lupi, alla casa comoda e al pasto sicuro. E quando, com’era già capitato varie volte, il branco di lupi arrivava al gregge, Conchita e gli altri mastini scattavano insieme come mossi da un unico orchestrale chiamato istinto, un istinto antico come le loro origini, e partivano indomiti, arditi. Spesso qualcuno di loro non tornava al campo, e Fernandez piangeva e malediva quella lotta ingiusta fra chi aveva fame, spesso senza colpa, e chi non ammetteva attacchi a chi amava.
Conchita, oltre ad essere un grande cane da difesa, era anche una buona fattrice e una brava madre: aveva già avuto tre cucciolate, le aveva nutrite, allevate, educate, fino al momento in cui si era dovuta separare da loro per la dura legge dell’allevamento che ti impone di cedere anche ciò che ami senza sapere, sino in fondo, nelle mani e nel cuore di chi finirà. Ma Conchita aveva fatto anche di più l’anno prima. Al suo parto aveva fatto seguito, un mese dopo, il parto di un’altra mastina, Mandy, purtroppo scomparsa per alcune successive complicanze. I cuccioli, così piccoli e fragili, sarebbero morti di sicuro se Fernandez non avesse avuto l’idea di chiedere un sacrificio proprio a Conchita: allattare, oltre i suoi tredici cuccioli, gli otto piccoli della povera Mandy.
Questi erano i mastini spagnoli: anime tenere e generose ma anche grandi eroi, protagonisti di lotte antiche e feroci contro lupi sempre più affamati perché sempre più circondati dall’uomo, non più liberi sovrani di grandi boschi e radure, ma costretti in luoghi ormai angusti e poveri di selvaggina e di cibo per se stessi e per i propri cuccioli.
L’ultima lotta, la più memorabile, quella che lasciava Fernandez ipnotizzato tutte le mattine davanti al ritratto di San Girolamo con il leone, risaliva a poco più di un mese fa, mentre il gregge faceva ritorno all’azienda dalla montagna, guidato dai cani pastore e protetto dai mastini spagnoli. A pochi chilometri della meta, verso l’imbrunire, quando le lunghe ombre dei cespugli confondevano la realtà rendendola sfuggente e incerta, era partito l’attacco. Quattro forse cinque lupi avevano assalito la parte più periferica e lontana del gregge, avendo la meglio su una povera pecora e sul suo agnello.
Un attacco fulmineo! I lupi erano così: razziatori veloci, furbi e certamente indifferenti ai tentativi maldestri di contenimento e di difesa dei cani pastori. Ma ancora una volta si erano dimenticati che pecore e cani non erano soli: sei mastini erano nascosti in mezzo al gregge. Li guidava Titan II, figlio del grande Titan italiano, campione del mondo per anni, uno dei più bei mastini di tutti i tempi. Titan II gli somigliava: cento chili di muscoli per un metro al garrese. Grande ma veloce, fu il primo a scattare, seguito dagli altri fra i quali l’amata Conchita. I lupi si diedero alla fuga trascinandosi dietro il loro bottino.
Ma non fa parte dell’indole del mastino fermarsi anche davanti alla ritirata del nemico: l’obiettivo è sempre e solo la cattura dell’aggressore! E l’inseguimento iniziò anche quella sera. Latrati lontani vennero uditi per ore dai pastori, sino all’alba. La mattina mancavano tutti i cani, ma non erano molto lontani dal punto di partenza; a poca distanza dalle greggi i mastini erano tutti fermi in circolo, al centro del quale giaceva il lupo morto. O meglio: la lupa.
Si trattava di una femmina, abbastanza giovane e con le mammelle gonfie: forse aveva dei cuccioli in qualche lontana tana. Così si dissero i pastori prima di seppellirla. Anche i mastini però erano provati dalla lotta: almeno quattro di loro avevano profonde ferite alla giogaia, alle labbra e alle orecchie. Conchita aveva un morso ad una zampa.
I cani vennero caricati su un camioncino e riportati in azienda. Arrivò il veterinario, li visitò e diede agli uomini le istruzioni per le cure. Fernandez per primo si chinò su ognuno di loro per medicarli e quei gesti delicati e premurosi gli ricordarono San Girolamo e il suo leone.
Quelli erano davvero i suoi leoni e come tali si erano battuti, rischiando la vita tutti insieme per lui e per le sue pecore.
La ferita di Conchita non era grave, ma lei però non era più la stessa. Sin dal momento del suo ritrovamento e poi durante il trasporto e le cure quella cagna, tranquilla e affettuosa, era completamente cambiata diventando agitata, irrequieta e a tratti aggressiva. All’interno del perimetro dell’azienda, dov’era libera di correre, ululava e abbaiava in continuazione, nonostante la ferita. Era, il suo, un continuo peregrinare dalla casa, alle stalle, ai cancelli, in un tentativo disperato di comunicare qualcosa che nessuno era in grado di capire, neppure Fernandez.
Finché accadde ciò che tutti temevano: la mattina del giorno dopo Conchita non c’era più. Era sparita portandosi dietro l’angoscia di Fernandez che, nel profondo, si accusava di non aver saputo (o voluto per stanchezza) intercettare i messaggi che il suo cane aveva in tutti i modi lanciato, in un linguaggio che gli uomini non capivano più. Le ricerche intorno all’azienda furono inutili: Conchita era sparita nel nulla senza lasciare tracce, se non un cancello secondario aperto, dimenticato, ma dal quale nessun cane era mai uscito.
Non restava che aspettare e sperare. E Fernandez aspettò, seduto davanti al camino, guardando il suo quadretto. Aspettò tutta la notte, raramente assopendosi in un sonno irrequieto e costellato da incubi. Mentre stava sorgendo il sole dalle cucce dei cani però partì il finimondo: latrati, ululati, abbai, ringhi. Tutti i cani dell’azienda sembravano in preda ad una follia collettiva. L’origine di ciò sembrava essere qualcosa che si trovava oltre il cancello principale d’ingresso. Lì si diresse Fernandez con i suoi uomini, tutti con il loro fucile in mano, nel caso servisse: l’Estremadura è un territorio così, ancora (o per fortuna?) pericoloso per gli umani. E così, pronti a tutto, aprirono un poco il cancello: ciò che videro però non aveva bisogno di armi o di assalti e certamente superava ogni loro fantasia. Fuori dal cancello, in piedi, eretta sulle sue quattro possenti zampe come una regina, c’era Conchita e attorno a lei zampettavano quattro lupacchiotti grigi, agitati in attesa di una mammella con un po’ di cibo.
Conchita era andata a salvare i figli della lupa uccisa la sera prima.
La cagna aveva capito il segreto della madre affamata che lei stessa aveva contribuito a catturare per quella legge che porta, dalla notte dei tempi, il cane ad aiutare l’uomo anche contro i propri simili disperati per fame e sete!
Era uscita la notte e seguendo chissà quali tracce, aveva recuperato i cuccioli soli e condannati ad una fine crudele. Uno ad uno, li aveva portati lì, perché l’uomo, di cui si fidava ciecamente, se ne facesse carico. Fernandez fermò i suoi pastori, si avvicinò a Conchita e le baciò la fronte poiché non c’erano parole innanzi al quell’ennesimo miracolo dei suoi mastini. Fece aprire tutto il cancello e lui stesso mise, uno alla volta, i piccoli lupi in una carriola, per portarli al riparo, in un luogo coperto, sicuro, lontano dagli altri cani, con Conchita vicina che non li lasciava un attimo: ormai era la loro mamma.
Furono portate delle ciotole e del latte: i cuccioli vi si immersero e cominciarono a mangiare, fortunatamente non erano così piccoli da non darsi da fare da soli con il cibo! Conchita li leccava e li puliva come sempre aveva fatto con tutti i suoi cuccioli. Dopo un’ora dormivano beati tutti addosso al corpo caldo e morbido della mastina, la nuova madre ritrovata.
Fernandez si chinò di nuovo vicino a lei, le sbendò la zampa, la disinfettò, per poi ribendarla come il veterinario gli aveva spiegato, mentre la lingua ruvida di quel nobile animale gli leccava il viso sul quale scorrevano lacrime libere nate dallo stupore per ciò che la natura gli aveva regalato.
I lupacchiotti sarebbero cresciuti lì, con lui, con Conchita e con gli altri mastini. Non lo spaventava il futuro: cosa avrebbe fatto di loro una volta adulti, non lo sapeva! Era però certo che, oltre i Pirenei e le Alpi, c’erano uomini e donne, un gruppo di persone speciali dagli abiti color del sole, che avrebbero saputo dare un senso all’evento miracoloso di quella giornata, avrebbero saputo consigliarlo per il meglio, avrebbero suggerito una via di uscita ed una soluzione che lui non voleva cercare al momento, pago di quello che aveva.
E così riflettendo ribaciò Conchita sul testone caldo mentre i cuccioli dormivano pacifici, e uscì dalla stanza, cercò sul cellulare il numero del monastero e chiamò.
Uno, due, tre squilli e qualcuno rispose: “Buenos dias, soy Fernandez Toma Rabanal de España ¿ Què tal estàis? Necesito hablar con … No os podèis imaginar lo que me ha pasado hoy, lo que han hecho nuestros perros, en particular Conchita…”
Un particolare ringraziamento ai miei amici dalle tuniche color del sole.

Paolo e Francesca
Ispirato all’opera di Giuseppe Luigi Pioli
Paolo e Francesca
F:
Paolo, stanotte ho sognato ancora. Eravamo in una grande stanza, piena di sedie. Ad un certo punto si riempiva di persone che si sedevano e poi, poco alla volta, andavano via lasciando la stanza nuovamente vuota. Ci guardavano, distratti a volte, i volti non erano i soliti, non erano lì per noi.
P:
Francesca, oramai dovresti saperlo, ogni volta che sogni qualcosa vuol dire che, da qualche parte nel mondo, una nuova parete si riempie di noi, un nuovo quadro compare a ricordare la nostra storia; sarà accaduto in un museo, oppure in una stanza della casa di un collezionista d’arte…
F:
Non credo, era un luogo diverso dal solito, Paolo. Poi,poco dopo, nella stanza deserta compariva un uomo e si sedeva ,aveva una maschera sul volto ,gli copriva tutto tranne gli occhi, e aveva addosso una strana divisa…
Ci fissava in un modo strano. Non era lo sguardo del rapimento, non era lo sguardo della curiosità e dell’ammirazione di chi si ferma davanti a un quadro, erano occhi pieni di sconvolgente sorpresa. Quelli di chi non si aspettava di trovarsi lì in quel momento, gli occhi di chi cerca comprensione e risposte.
P:
Ma comunque Francesca, chiunque fosse, l’importante è che cercando nella nostra storia abbia potuto placare l’ansia dei suoi interrogativi.
Questo siamo noi, lo sai; strumenti di un’unica domanda a cui far seguire migliaia di possibili risposte: Si può amare e per amore finire all’inferno…e se è così, allora cos’è l’amore?
Io e te, lo sai, una risposta a questo ce la siamo data. Abbiamo ceduto alla passione, all’istinto. Abbiamo negato la parte di bene che è la costruzione dell’amore, quel percorso a cui noi stessi partecipiamo. L’amore è anche ragione, consapevolezza, richiede un tempo condiviso, non è soltanto travolgimento e immediatezza. Negare questo significa negare il nostro stesso bene e tutto quello che abbiamo costruito in suo nome fino a quel momento.
F:
Si certo Paolo, ne abbiamo discusso, ma quello che mi sto chiedendo è: a quale amore pensava quell’uomo? quali risposte cercava?
P:
Non lo so Francesca, non ci è dato saperlo. Siamo strumenti, potenti, ma nulla di più. Non conosceremo mai i quesiti e le risposte di chi ci guarda, sapremo solo che quegli occhi dopo aver guardato noi, si guarderanno dentro.
…Devo sedermi, ho bisogno di un attimo. La mia retina ha appena impressionato sulla sua superfice una moltitudine di umanità sdraiata e in difficoltà. Mi fermo qui davanti a Paolo e Francesca.
Mi chiedo perché nessuno, Dante per primo, ascoltando la vicenda di questi due giovani innamorati, senta dentro di se di doverli condannare e con essi il loro stesso peccato. Tutti in qualche modo proviamo comprensione, pena, amarezza per loro. Forse perché hanno perduto la vita per inseguire una passione. Forse perché troppo giovani per morire. Certamente il nostro cuore verso di loro non proverà mai la condanna assoluta, quella senza attenuanti. L’amore, in tutte le sue forme, è più vicino all’assoluzione che alla colpevolezza. Un amnistia che tutti accettano e concedono. Si, la lussuria è uno dei sette peccati capitali ma su quanto i precetti morali debbano entrare nelle scelte d’amore si discuterà da qui all’eternità.
Dante li ha messi si all’inferno, ma nel girone più lontano dai profondi inferi, in quell’imbuto rovesciato che rappresentano i gironi infernali loro si trovano più in su, proprio all’inizio, nel punto più vicino al purgatorio. È stato il suo modo di dargli una parziale assoluzione.
Per un attimo penso che qui non è così. Qui, in questa stanza, siamo vicino al punto più in basso. Sono appena uscito dal pronto soccorso che si trova accanto alla grande sala del centro prenotazione dove mi sono soffermato a guardare la gigantografia che magnifica l’estasi di un bacio degli amanti tra i più famosi al mondo. E mi sembra che Paolo e Francesca con il loro quadro siano al contrario vicini al punto più profondo degli inferi: Il nostro pronto soccorso appunto. Ed allora mi fermo, mi siedo e li guardo, a cercare di trovare qualcosa che mi faccia accettare tutto quello che sta accadendo. E quello che sto vedendo.
Lì guardo, immortalati nella loro passione, oggi avrebbero potuto vivere senza conseguenze, alla luce del sole, dichiarandosi al mondo. Il loro bacio trascina i miei pensieri lontano,verso la luce.
L’amore ha tante forme, visita mille luoghi, tocca tutte le anime nessuna esclusa, per rivelarsi alla fine, la grande energia incomprensibile che tutto trascina.
E mentre rifletto su questo non trovo quasi più il contrasto che pochi metri più in là e pochi minuti prima mi sembra di avere colto. Si dissolve piano il senso di impotenza, di frustrazione, di paura. Ritrovo il valore della mia presenza e dei miei compagni di lavoro, recupero il motivo per cui tutti noi siamo lì. Quella moltitudine di persone sofferenti, quei medici, quegli infermieri non sono attori di un girone dantesco, sono testimonianza di amore. Lì, appena dietro questa parete, va in scena una grande rappresentazione di tanti dei mille amori possibili.
Amore verso quella che chiamano missione, per un lavoro scelto e desiderato, amore verso un’umanità sconosciuta che chiede aiuto incondizionato e coraggioso. Amore per il sorriso restituito e per la riconoscenza eterna.
Mi alzo e ringrazio.
Paolo e Francesca, sopravvissuti dopo la morte, mi ascolteranno e percepiranno il mio grazie, sono sicuro.
F:
Posso vederlo Paolo, così come è arrivato va via, un breve cenno del capo, quasi un saluto. Troverà una spiegazione ne sono sicura.
E con lei sarà più lieve ogni cosa…

Gli innamorati
Ispirato all’opera di Giovanni Pezzotta
La memoria del nonno
“Nonno me la racconti di nuovo?”, disse Lea supplichevole, “Quella degli innamorati!”
Il nonno, seduto comodamente sulla poltrona, allargò le braccia per accogliere l’irruenza della nipotina che gli si faceva incontro. Abbracciò la bambina e la aiutò a salire sulle sue ginocchia mentre assaporava il profumo dei suoi lunghi capelli biondi, il volto di lei affondato nella sua lunga barba grigia.
“Ma ormai la sai a memoria!”, disse il nonno con voce roca.
Lea non rispose, concentrò semplicemente tutte le sue energie per prodursi in uno sguardo talmente dolce che il nonno dovette capitolare.
“E va bene, tesoro,” disse allontanando il volto da quello della bambina per meglio metterla a fuoco, “ma prima scendi dalle mie ginocchia, non sono più forti come un tempo” e nel dire queste ultime parole il suo sguardo si perse nel ricordo della lontana gioventù.
Lea si sedette a terra incrociando le gambe, le braccia puntellate alle ginocchia, con le mani a sorreggere il mento. Il nonno arretrò col corpo sulla seduta e raddrizzò la schiena, come un cantante lirico quando prepara un DO di petto.
“Bene,” disse “questa storia risale a molti anni fa, ai tempi in cui la gente si muoveva a cavallo e i bardi suonavano il liuto cantando le gesta della corte di Artù. Alcuni dicono che sia soltanto una storia di fantasia, qualcosa da raccontare ai bambini, in una fredda sera davanti ad un camino. Ma a me piace pensare che sia accaduto veramente, e so che piace pensare lo stesso anche a te.
La storia narra di Paolo, un giovane garzone, e di come un atto eroico cambiò la sua vita per sempre. Era una normale mattina di lavoro per il ragazzo, e come tutte le mattine stava percorrendo a piedi la strada che conduceva alla bottega, allontanando di tanto in tanto con un calcio le pietruzze che incontrava sul suo cammino. Era solito camminare con le mani dietro la schiena, fissando le punte dei piedi mentre fischiettava alcune delle melodie più in voga all’epoca. Ma quel giorno qualcosa lo obbligò a distogliere lo sguardo dalla strada. Il suono di alcune risate proveniva dal boschetto che costeggiava la via. Paolo lasciò per un attimo la via maestra addentrandosi nell’ombra delle betulle, stando attento a non fare troppo rumore, finché arrivò abbastanza vicino da vedere un gruppo di ragazze immerse, seminude, nell’acqua di un ruscello. La visione lo colpì così violentemente che mancò la presa dell’albero a cui stava per appoggiarsi e cadde rumorosamente su un vicino cespuglio. Il frastuono attirò l’attenzione di tutte le ragazze che, volgendo lo sguardo nella sua direzione, non poterono fare a meno di accorgersi della presenza di Paolo quando si rialzò. Le ragazze iniziarono a strillare, uscendo di fretta dall’acqua coprendosi i seni con le braccia; scappavano tutte cercando di raccogliere il più in fretta possibile le camicette appese ai rami degli alberi. Fuggirono tutte tranne una. ‘Francesca, vieni via!’ le dicevano le compagne, ma lei, la più bella tra le belle, uscì dall’acqua con calma, lo sguardo fisso negli occhi di Paolo, i lunghi capelli corvini che le scendevano sopra le spalle, lasciando scorrere dei rivoli d’acqua sul suo ventre pallido.
Paolo non riusciva a muoversi, era completamente perso in quella visione estatica, in quegli occhi del colore dell’acqua.”
“Perché non riusciva a muoversi, nonno?”, disse Lea interrompendo l’istante di silenzio lasciato dal vecchio.
Il nonno si riebbe, “Oh, tesoro, è quello che succede ad un uomo quando vede una dea. Paolo non aveva mai visto nulla di più bello, mai nella sua vita. La ragazza si abbassò per raccogliere un telo che era steso sull’erba e con fare tranquillo piegò la testa da un lato asciugandosi i capelli, senza mai distogliere lo sguardo dal garzone.
Paolo si fece coraggio e si avvicinò alla ragazza, lentamente, controllando ogni passo come in una danza, i suoi occhi in quelli di lei. Le arrivò così vicino da sentire il profumo del suo corpo bagnato. Profumava di erba, di fiori, di donna. I suoi capelli scintillavano, nei rari punti in cui i raggi del sole che riuscivano ad attraversare la coltre di foglie degli alberi li lambiva. E lì, sulla riva del fiume, si amarono.”
“Che significa che si amarono, nonno? Fecero un bambino?”
“No, cara,” la interruppe lui con un sorriso, “fecero qualcosa di ancora più bello: si diedero il primo bacio.”
Lea sospirò, estasiata.
“E fu solo il primo di tanti baci che Paolo e Francesca, sotto le fronde delle betulle, vicino al fiumiciattolo, si diedero da lì in avanti. Tutti i giorni i due innamorati si davano appuntamento in quella che era stata la patria natia del loro amore. Ma Francesca, purtroppo, era figlia di un ricco borghese che mai avrebbe accettato di concedere la mano della sua unica figlia ad un vile garzone. Dimenticavo quasi di dirti che il padre di Francesca aveva già organizzato il matrimonio della sua primogenita con il figlio del nobile signore che governava la città, quindi i due amanti erano costretti ad incontrarsi di nascosto.”
“Ma non è giusto! Si amavano, no? Quale dovrebbe essere il problema? Papà sarebbe felice se io mi innamorassi di un garzone.”
Il nonno, sorridendo, rispose, “Oh, certo che sì tesoro, ma tuo padre non è il padre di Francesca. Lasciami andare avanti… Passarono mesi ma purtroppo, nei piccoli paesi, le cose si vengono a sapere. Fu così che una mattina, mentre abbracciati leggevano un libro, il padre di Francesca li sorprese. In preda ad un’ira furibonda il mercante estrasse un pugnale proclamando a gran voce che avrebbe preferito vedere sua figlia morta che tra le braccia di un garzone. Il padre di Francesca si scagliò contro di lei ma un attimo prima che il pugnale la colpisse, Paolo balzò e il pugnale finì nel suo ventre.”
“No!”, gridò terrorizzata Lea, che reagiva così tutte le volte, “Che ne è stato di Paolo?”
“Paolo è diventato un vecchio brontolone che si dimentica sempre quando è ora di cena”, intervenne la nonna che ascoltava dalla cucina, “venite tutti e due, svelti, o si raffredda!”

Pochi istanti
Ispirato all’opera di Andrea Marenzi
“Le cascate del Serio”
Ho sognato questo momento da tanto tempo, tutto il tempo scandito dal sudore e dalla fatica, ma, sopra ogni altra cosa, dal piacere di fendere l’aria, quasi a perdere materia.
Ho sognato questo momento fin da quando mi lanciavo correndo nel bosco, fingendo di essere un animale, evitando i tronchi sulla mia rotta, all’ultimo istante, in una sfida continua con le forze della natura, con quell’acqua scrosciante che nessuno potrà mai vincere, né superare. Ora, sotto questo cielo stellato, unico spettatore della gara, sono qui, con i piedi ancorati e pronti sui blocchi di partenza, le gambe piegate e il corpo in sospensione…in attesa del via e oltre…Sono il prodotto non solo di mia madre e di mio padre, ma di secoli e secoli di umanità. Porto dentro di me la paura ancestrale dell’uomo delle caverne, le scariche di adrenalina di fronte all’animale preistorico e nello stesso tempo la poesia del fruscio del vento tra i rami e del canto della pioggia. Mi accompagna la saggezza e l’ipocrisia degli anziani, il profumo dei piccoli attaccati al seno e riconosco in uno sguardo, gli sguardi di secoli e secoli di sopravvivenza. Mi basta sentire questa parte del mio DNA sulla pelle per sapere che continuerò ad esistere, fino all’estinzione ed oltre… Perché dovrei sentire il bisogno di credere in un” non” luogo come il paradiso, un posto che mi rassicuri e mi consoli dalla vita, a volte spietata e incontrollabile e magnificamente irrinunciabile o dalla morte necessaria ed inevitabile, che come la nascita non sempre è facile e indolore. Questa è la vita, la vita mentre corro nel mio paradiso e nessuno la potrà fermare. Un giorno passerò la staffetta a qualcun altro, fosse solo un granello di sabbia.
E poi lo sparo.
Tutti i miei muscoli si contraggono e una scarica di energia pura mi attraversa i nervi e la carne e arriva al cervello…e vedo la foto di mia madre con quell’enorme fiocco bianco tra i capelli e il grembiule nero, una foto stinta dal tempo, vedo l’espressione di mio padre sull’ambulanza, che mi vuole credere quando gli dico che andrà tutto bene e la faccina di mia figlia addormentata, che mi fa stringere il cuore di una gioia dolorosa, tanto è fatta di sangue e di amore…e tutto questo in poche frazioni di secondi…le gambe precedono la volontà e il pensiero della corsa, io sono una valanga di molecole che si muovono all’unisono, insieme all’aria e all’acqua, in una sfida alla forza di gravità, perché non posso fare a meno di correre, come di respirare, di amare di vivere, anche fosse tutto intorno a me dolore e disperazione.
Pochi istanti e taglierò il traguardo, ho realizzato il mio sogno.
Non il sesso, la razza o il colore della pelle, sono solo un essere che correndo vola, con i piedi sulla terra e il respiro nel cielo.

Prenditi cura
Ispirato all’opera di Francesco Hayez
Caterina Cornaro riceve l’annuncio della sua deposizione dal Regno di Cipro
Il racconto si ispira al quadro di Hayez “La deposizione di Caterina Cornaro” e cita un passaggio del melodramma di Donizetti, ispirato alle medesime vicende.
“Eccellentissima Caterina, Regina di Cipro per volere di Dio, in virtù dell’onore conferitomi dal Senato della Repubblica di Venezia, io Ambasciatore della Serenissima, Vi comunico che, da oggi, 28 ottobre 1489, secondo gli auspici di San Marco, il vessillo del Leone sventola sulle mura della fortezza.
Nella Sua saggezza il Senato intende stendere il manto della Sua protezione sull’isola tanto amata e soccorrere la Signoria Vostra nell’immane compito di difenderla dalle mire del Califfo.
Con magnanimità degna della Sua fama dispone che Voi possiate tornare in patria e disporre delle terre che in Asolo Vi vengono concesse. Vogliate accettare i benefici di tanta prodigalità.”
Guardatela è abbattuta, schiantata come una quercia dalla bufera.
Non hanno avuto alcuna pietà, nessuna mercé per Caterina.
Ma lui, suo fratello, come ha potuto?
Guardava altrove, freddo e distante, mentre pronunciava parole all’apparenza gentili, ma pesanti come macigni. Sembrava quasi provare un piacere maligno, nello spogliarla di tutto.
“Con magnanimità degna della Sua fama…”. Quale magnanimità? Prima, giovinetta, l’hanno costretta al matrimonio regale con Giacomo ed ora, bramosi del dominio, vogliono l’isola e le strappano tutto.
E lei? Immobile, rassegnata, come se nulla possa essere tentato. L’alleanza con i catalani, grazie all’intercessione del Vescovo Luigi, l’accordo e il futuro degno di una regina sono ancora possibili, ma lei no, fedele a Venezia, la Serenissima unico orizzonte degno di essere vissuto.
Di noi cosa sarà? La sorte ci riserva un posto da sguattere nelle cucine di qualche mercante, o cortigiane in un bordello di Rialto, lei non saprà difenderci, ammesso che lo voglia.
Queste voci, sospiri angosciati e spifferi maligni, giungono a me come turbine, sibilanti tra i corridoi e le stanze del Palazzo.
Anche le mie dame di compagnia, confidenti di una vita, mie amiche, si scagliano su di me come le onde lunghe dopo la tempesta e coprono di relitti la spiaggia ghiaiosa del mio cuore.
Ma tu, o fratello, Giorgio, mio compagno di giochi innocenti tra le calli della città; tu che mi proteggesti mille volte dai saraceni che ci assalivano nella nostra reggia fantastica.
Vieni, o tu, che ognora io chiamo con dolcissime parole. Vieni a me, che aspetto ed amo.
Abbandona la tunica scarlatta del potere.
Nulla temerei, se il futuro mi fosse offerto dalla tua mano aperta.
Il Leone sventola ora sulle mura, ma guarda il manto svuotato della fiera che giace sul mio scranno: gloria effimera che passa.
Nulla vi é di certo, nulla di definitivo, ma il mio affetto per te é intatto e paziente.
Addolcisci lo sguardo, ritorna al tocco premuroso e alle dolci parole di cui, son certa, sei tuttora capace. Apri il tuo cuore e salvati. Prenditi cura di me.

Pathei Mathos (Dalla sofferenza la conoscenza)
Ispirato all’opera di Giuseppe Luigi Pioli
Paolo e Francesca
e di Giovanni Bellini
Madonna col Bambino (Madonna di Alzano)
Da molte notti non riuscivo a dormire. Il buio profondo mi impauriva; la luce fioca posta sopra il letto illuminava a stento i contorni degli oggetti attorno a me: il cuscino, la sedia, una coperta, il comodino con le mie povere cose appoggiate sopra alla rinfusa. Poco più in là, il profilo del mio vicino, immobile. L’ossigeno ronzava monotono, rassicurante.
Era uno dei momenti in cui nel grande ospedale quasi improvvisamente regnavano la calma e il silenzio. Forse qualcuno in quel momento riusciva a prendere sonno, e qualcuno al di là del muro chiudeva gli occhi, per sempre. Mi destai dal mio torpore e vidi che nel piccolo spazio oltre i letti filtrava uno spiraglio di luce. La porta, solitamente bloccata con cura, era rimasta socchiusa. Fui preso da un desiderio improvviso di aria. Aria fresca sul mio viso, quella che sognavo da giorni, aria di una giornata di estate su prati di montagna, o di una giornata di vento in riva al mare. Uscire, sì, dovevo uscire all’aperto, fuggire da quella stanza in cui ero rinchiuso, non ricordavo nemmeno più da quanto tempo. Fuori l’avrei sentita, quell’aria. Con il cuore in gola mi tolsi la maschera e la appoggiai, come un serpente sibilante, sul letto. Constatai con meraviglia che riuscivo a respirare senza fatica. Avanzai con prudenza lungo la stanza, controllando che il vicino dormisse. Aprii lentamente la porta; una luce gialla, fredda, accecante mi costrinse per un attimo a chiudere le palpebre. Guardai a sinistra: nessuno. A destra, nessuno. Ricordavo vagamente la strada per cui mi avevano condotto al quarto piano, alla stanza 407. Strisciai lungo il muro, sulla destra, superai una porta socchiusa dalla quale provenivano due voci sommesse di donna; le infermiere di turno, certamente. Mi diressi verso la porta che tagliava a metà la corsia, terrorizzato di trovarla chiusa. La sospinsi con cura e la aprii, senza rumore.
Mi ritrovai nel buio. Qualche metro dopo c’era un ascensore, intravidi i pulsanti; premetti per la discesa. Non ricordavo più a questo punto da dove fossi arrivato, ma a pian terreno ci sarà l’uscita, pensai. Quando le porte si aprirono, dopo un attimo di esitazione, mi tuffai nell’oscurità più completa. Il panico iniziava ad assalirmi, e anche il respiro sembrava più faticoso. Con passo incerto mi diressi lungo un corridoio, fino a un’ampia stanza appena illuminata da una luce d’emergenza, circondata da una sorta di muretto sovrastato da pannelli di vetro. Per terra, un dedalo di frecce colorate indicanti le varie destinazioni. Durante il giorno dovevano transitare di lì lunghe file di uomini e donne malati, con il loro fardello di paure, di sofferenza e di rabbia. Ora tutto era avvolto nel silenzio più assoluto. Alzai gli occhi dal pavimento e a stento trattenni un urlo di terrore per quello che vidi sul muro di fronte. Era un uomo non più giovane, dall’aspetto fragile, un poco trasandato. La sua bocca era aperta in un grido di angoscia che non voleva uscire e gli occhi, quegli occhi, erano pieni di paura. Fuggii lungo un altro corridoio, in fondo al quale si intravvedeva un altro spiraglio di luce. Mi sentivo sfinito, il cuore batteva rapidamente, respiravo sempre più a fatica. Il timore di non sopravvivere e la vergogna al pensiero di potere essere trovato esanime in un corridoio la mattina dopo mi stavano soverchiando. Fu a quel punto che la vidi, lungo la parete. Una donna con lo sguardo dolce, chino su un bambino. La sua mano abbracciava il corpo del piccolo, carne contro carne. Da quanto tempo nessuno mi toccava… Nascosto in una stanza, non oggetto di amore ma solo fonte di pericolo, un animale sporco e spaventato. Nella febbre del delirio appoggiai la mia mano su quella mano, volevo il suo calore; il bimbo avrebbe capito… Il freddo del muro mi fece sobbalzare. Capii che dovevo in qualche modo tornare nella stanza, a tutti i costi. Non so come, con la forza della disperazione ritrovai l’ascensore, il corridoio giallo, la stanza 407, mi rimisi la maschera e mi sdraiai nel letto.
Passarono minuti, ore, forse giorni. Ero ancora disteso nel letto vicino alla finestra, avvolto nella penombra. Lei arrivò, con un leggero fruscio di vesti. Era completamente coperta dagli abiti di lavoro, solo due occhi azzurri e calmi mi guardavano. “Cosa vuoi?” – mi disse. Con fatica mi sedetti sul letto. “Non voglio più soffrire. Non ho paura. La vita mi ha dato tanto, è ora che me ne vada” – risposi. Lei non disse nulla. Si sedette vicino a me. Mise la sua mano sulla mia spalla, sentivo il suo calore anche attraverso i guanti che indossava. “Forse la vita ha ancora qualcosa in serbo per te” – mi sussurrò – “o forse tu hai qualcosa ancora in serbo per la vita”. “Ora devo andare, ho tanto lavoro” – e dolcemente, senza fretta, dopo un ultimo sguardo, scomparve dalla mia vista.
Sono tornato nel grande ospedale, ora che la peste ha allentato la sua morsa. Ho ripercorso quei luoghi, alla luce, in una bella giornata di sole. Sono stato nel locale dell’accettazione, con le sue grandi strisce colorate. Decine di persone, alcune in coda, altre sedute. Sui muri, nulla. Solo pareti gialle e uniformi. Nessuna traccia di quell’uomo solo e spaventato. Ho percorso il corridoio che mi aveva visto barcollare febbricitante, mesi prima. Almeno lei ci sarà, ho pensato. Con un tuffo al cuore, ho scorto il ritratto. La donna e il bambino erano lì, lei lo abbracciava. Ho scrutato a lungo il suo sguardo: freddo, come la parete e come la sua mano. “Ti sei sognato tutto”, mi dicono quando racconto questa storia. “Sai, con gli psicofarmaci succede”, “Forse è la malattia stessa, ho letto che può dare allucinazioni” – dicono i meglio informati e i più dotti. Ma io lo so. Era lei. Lo so perché prima di spostarmi da quel muro, per un istante, lei mi ha sorriso.

La vita dopo la tempesta
Veduta della Piazza Grande di Bergamo, Costantino Rosa
La belva predatrice, affamata di uomini, in cerca di altri luoghi immacolati da saccheggiare, stava allentando la sua morsa tenace e furibonda sulla città di Bergamo.
La sua nera sagoma dallo stomaco ancora brontolante scivolava languida scomparendo oltre i tetti di Città Alta, portando con sé le sue tetre propaggini, dita gigantesche di una Mietitrice che aveva reclamato con sé molte anime da traghettare attraverso l’oltretomba.
Gli abitanti di Bergamo mai avrebbero scordato quel periodo di terrore, marchiato a fuoco nelle loro menti, sconvolte da mesi di incubi puri e primordiali.
Nitido era in loro il ricordo del giorno in cui inaspettata la morte piombò su di loro, i suoi ruggiti da fiera indomabile, il suo incedere ineluttabile, alla quale nemmeno le preghiere potevano porre sollievo.
All’inizio ci furono i tuoni, lontani e distanti, forieri di infausti presagi, poi il cielo divenne del colore del piombo fuso, a cui seguirono infine i fulmini.
Improvvisi e mirati, colpivano senza pietà come se guidati da una mano divina, uno Zeus in collera prodigo a infliggere l’estrema punizione sull’Uomo.
I primi a cadere vittima delle folgori mortali furono coloro cui la cattiva sorte non permise loro di trovare riparo fra le mura domestiche, stroncati lì sul posto, senza preavviso, senza nemmeno l’occasione di aver potuto raccogliere i loro ultimi pensieri, o dire addio ai propri cari.
Corpi esanimi falcidiati da una natura crudele e indomabile, negato loro il diritto di una dignitosa veglia funebre, compianti solo da chi in lacrime stava ad osservarli dietro le imposte sbarrate delle loro case.
Urla di angoscia e disperazione rimbombavano di casa in casa, emblema dell’impotenza dell’Uomo di fronte ad un nemico terribile ed impossibile da affrontare, l’unica consolazione lasciata alle famiglie il poter stare abbracciate godendo del reciproco affetto e calore, ma costrette tuttavia ad ascoltare il pandemonio che imperversava intorno a loro.
Ma non era ancora finita: la nubi minacciose decisero di gonfiarsi ulteriormente di collera, e ciò che era sul bordo di un precipizio, decise di spiccare definitivamente il salto.
Venne meno anche la certezza dell’isolamento quando il fragore dei tuoni, al massimo della loro furia devastatrice, infranse le vetrate delle abitazioni più esposte, rendendo la strada facile alle intemperie, libere di infrangere la sicurezza domestica e ampliare l’ondata di panico e sgomento in un popolo la cui volontà era ormai spezzata in modo irreversibile.
Ma così come il mare agitato è destinato prima o poi a tramutarsi in bonaccia, nella stessa maniera repentina con la quale tutto era iniziato, il frastuono della tempesta improvvisamente calò d’intensità, scuotendo gli animi della gente, che guardando fuori incredula il mondo per la prima volta dopo mesi, poté vedere come tutto fosse cambiato là fuori.
E fu in quel preciso momento che la speranza da brace sopita divampò nuovamente in una grande fiamma ardente.
Un raggio di sole pallido e timido bucava le nubi sopra la Fontana Contarini, creando contorni di luce sulle statue dei leoni, ancora integre, ancora lì, stoiche, imperturbabili, araldi della risolutezza indomita dei bergamaschi di fronte alla tragedia.
Mentre i rumori della tempesta si facevano sempre più distanti e lamentosi, come un animale sconfitto che si ritirava a leccarsi le ferite nella sua tana, i bergamaschi dalle loro tane invece cominciarono a fare capolino vittoriosi.
Ed ecco che una piazza a lungo composta solamente da pietra e marmo, cominciò a riempirsi anche di carne e tessuti.
Il vociare dei bambini riempì l’aria, suole di scarpe tornarono di nuovo a scricchiolare sopra la pavimentazione a losanghe di Piazza Grande, mentre i più cauti osservarono a debita distanza la folla ripopolare una Bergamo rimasta a lungo abbandonata.
Il cielo fu protagonista di una moltitudine di sguardi meravigliati, miti platonici usciti dalla caverna ad osservare con occhi da bambino una realtà da riscoprire.
Torna a vivere, popolo di Bergamo, più forte e consapevole di prima, ma senza dimenticare il passato, che vi sia anzi da insegnante per il futuro.
Le ferite si possono rimarginare, ma le cicatrici che lasceranno, narreranno per sempre una storia indelebile vissuta sulla vostra pelle.
Possa tale esperienza essere d’aiuto per chi ancora dovrà affrontare l’ira di questa creatura immonda e possa la consapevolezza di ciò che avete passato insegnarvi la caducità della vita stessa, ma anche che questa, se difesa con tenacia e spirito di collaborazione, alla fine, trionfa sempre.

Venuto al Cielo
Ispirato all’opera di Giovanni Bellini
Madonna col bambino (Madonna di Alzano)
Chaíre Madre, Ciao Mamma. Non guardarmi come mi stai guardando, lo so che non mi aspettavi. Chissà se a prometterti il mio arrivo sia stato un cherubico messaggero oppure un ritardo inatteso.
Mi avevi tanto desiderato in passato, ma adesso, adesso che sono qui, hai paura. Due gravidanze a termine ed altrettante interrotte, nel tentativo di donare a papà quel maschietto che tanto desiderava, pesano come un macigno. Hai pensato che forse non eri più pronta, che non ce l’avresti fatta, ma hai “conservato tutte queste cose meditandole in cuor tuo”, perché ti vergognavi di svelare tali turbamenti al pubblico festante per la buona novella. Ma a me non puoi nasconderti, io sono dentro di te, io sono te, e le tue paure sono le mie.
Mi hai donato alla luce, non in una fredda grotta, bensì in una camera d’ospedale, altrettanto fredda, ma di un freddo diverso. Ci separarono dapprincipio, poiché la mia presenza ti aveva sconvolta non soltanto nell’anima, ma anche nel corpo. Dal tuo ritorno, la paura di perderti, di essere abbandonato o nuovamente strappato da te, è diventata parte di me.
Ti ricordi di quando piccolissimo, di ritorno da scuola, chiedevo al conducente del pulmino giallo se poteva attendere che la Mamma mi aprisse il cancellino? Ero terrorizzato che il suono del campanello non ricevesse risposta e quando sentivo azionarsi la serratura, quel vuoto nello stomaco si riempiva e mi sentivo il bambino più felice del mondo.
La paura negli anni si è fatta ansia e poi panico. E tutt’ora, quando qualcosa non va, il mio corpo mi avvisa come il tuo mi ha insegnato quando stavo nel tuo grembo: insetti sotto la pelle, la faccia avvolta in una ragnatela, il cuore che corre e quel nodo alla gola che soffoca, ostruendo lo scorrere del cibo e dell’aria dentro di noi, ed impedendo a parole ed emozioni di lasciare il nostro corpo.
Mi hai dato tutto di te ed io ho preso tutto.
Ora: la vedi quella pera? E’ mia. Dammela. Non temere, resteremo insieme per sempre.
Adesso, che dinanzi a questo quadro ti vedo di blu vestita, voglio dirti quanto ti voglio bene e che se persino Dio ha avuto bisogno di una Madre per venire al Mondo, io grazie a te, Mamma, sono Venuto al Cielo

La guerra è finita
Ispirato all’opera di Giovanni Pezzotta
La memoria del nonno
Bergamo, 18 luglio 2045.
Ciao Chris,
un tempo contavamo i secondi che passavano tra la luce di un fulmine e il suo scoppio per capire quando sarebbe arrivato il temporale. Ci avessimo azzeccato una sola volta. Adesso faccio lo stesso, ma la minaccia che dall’orizzonte fa arrivare i suoi suoni non è più il temporale. Spero di essere diventato più bravo con i calcoli.
Non te l’ho più scritto, ma l’altro giorno, mentre perlustravo la zona, mi sono ritrovato in Borgo Santa Caterina e il ricordo delle sbronze di una vita fa mi ha quasi preso a pugni in faccia. Ti ho pure sognato la notte scorsa. Ecco perché in questo momento sento particolarmente la tua mancanza.
Ormai è due settimane che ci nascondiamo nei sotterranei dell’Accademia Carrara.
Oggi ha fatto un caldo della madonna e ho faticato a prendere sonno. Tra poco inizio il turno notturno da sentinella e mi servirebbe una tanica di caffè per tenere aperti gli occhi. Speriamo solo che continui a non succedere nulla, ma quei pezzi di merda prima o poi si avvicineranno troppo e noi dovremo scappare. Ancora.
Peccato, stare qui mi piace. Il posto è abbastanza grande da riuscire a trovare qualche angolo per starsene un po’ per i cazzi propri. Eppure, non siamo rimasti in tanti. Ieri l’altro, Giada e il Secco sono usciti a fare il solito giro di controllo e ancora non sono rientrati. Difficile credere che lo faranno. Fa sempre un po’ male, ma lo sai che la guardia deve rimanere alta e che siamo costretti a farcene una ragione. Sembra una cosa tanto terribile da scrivere, figurati da pensare.
D’altronde, la freddezza a volte è più seducente della speranza. Per non cadere nel tranello, ogni tanto, di notte, salgo le scale e mi fermo in questa stanza della Pinacoteca a fissare un quadro. Uno in particolare. Quell’uomo anziano dalla barba bianca e accomodante mi pare quasi di vederlo muoversi, lentamente e goffamente, verso le braccia di sua nipote. Lei sembra esserne ignara, ma per suo nonno è un momento importante. La medaglietta che le sta regalando è il suo modo di rimanere al suo fianco, di non farsi dimenticare.
E poi ripenso al mio di nonno. Lo rivedo mentre mi racconta di suo padre, partito per il fronte durante la guerra di cent’anni fa. Ricordo solo quanto desiderassi che smettesse in fretta per potermi mettere le cuffie e giocare a Fortnite. Sembra quasi uno scherzo del destino.
Ho capito troppo tardi il significato di quelle storie e a quanto pare non sono l’unico ritardatario. Non ci resta che provare a resistere fino a quando potremo sederci a raccontare il più forte possibile questa realtà un po’ troppo storta e far durare nel tempo anche la nostra memoria, ma ancora più a lungo questa volta. Come questo dipinto.
Il dovere ha appena iniziato a chiamarmi e io ho già voglia di andarmene a riposare.
Il vento che ha iniziato a fischiare porta un po’ di fresco, ma sembra avvicinare troppo quei rumori poco rassicuranti.

I quadri raccontano
Ispirato all’opera di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto
Ritratto di fanciulla col ventaglio
Ho sempre pensato che la notte racchiudesse in sé le migliori opportunità. Il silenzio, l’atmosfera ovattata, ti cullano e proteggono. Il fragoroso vociare delle ore diurne si trasforma in riflessione e raccoglimento.
E’ stato così da sempre per me e oggi ancor più da infermiere. L’ospedale assume un’aurea nuova. Un non luogo, tela bianca in un tempo sospeso, contenente sofferenza e speranza, delusione e nuovi inizi. Credo questo dai miei primi passi in questi corridoi.
Appunto, i corridoi.
Lunghi ponti che ti traghettano da una realtà all’altra. Il cadenzare dei tuoi passi stanchi riecheggiano come il ticchettio sordo di quel vecchio orologio a pendolo di tuo nonno. Sguardo basso, respiro profondo e ti fai ipnotizzare dal tuo incessante cadenzare. Mancano ancora troppe ore al termine del turno, di una notte tranquilla. Per assurdo la peggior nemica per il sonno e pensieri stipati in mente. Mi permetto una pausa e mi indirizzo al primo distributore di caffè, il mio nettare notturno. Girando l’angolo ti pari davanti a me come fiamme di un fuoco che divampa. Sorpreso e sgomento, mai e poi mai avrei pensato di ritrovarti qua. Sei splendida come un tempo. Dio solo sa quanto mi sono perso nei tuoi capelli rosso fuoco, quanto nelle tue labbra e nel tuo incarnato appena più roseo sulle gote. Velatura su velatura, pennellata su pennellata: È passata una vita. Una delle mie tante vite. Ti sorrido come si è solito fare ad una vecchia amica, perché un’amica sincera ti ho sempre ritenuta. Per quanti anni giovanili hai spronato ogni mio impulso conoscitivo? Che tu prendessi questa forma o altre, ti sei sempre palesata a me materna con una mano sulla spalla. Mi hai visto crescere, scegliere e spesso sbagliare. Tu, la pittura. Lo studio appassionato al Liceo e poi in Università, lasciò spazio ad una precisa idea. Diventare custode. Custode delle storie celate dietro le tele. Un restauratore di dipinti per la precisione. E che quel ragazzino di appena vent’anni, che di te aveva fatto la sua unica amante, potesse tradirti cambiando professione, non lo avevi neppure minimamente preso in considerazione. Conscia della mia venerazione per te, troppo spesso mi avevi dato per scontato.
Quando ami così profondamente l’arte e in essa ti compenetri, come se ogni singolo quadro fosse la tua personale sindrome di Stendhal, hai solo una via d’uscita per sentirti davvero vivo: farti portatore di tale bellezza, testimone di ciò che i tuoi occhi hanno la fortuna di poter guardare cosi da vicino. Perché si trattava proprio di questo. Respirarti. Come due amanti abbracciati, avevo la fortuna di poter vedere ogni singolo dettaglio, tremolio, incertezza del pennello. Gli odori acri delle verniciature, il riaffiorare incerto dell’imprimitura bruna dallo sfondo da cui ti stagliavi. Il fortunato prescelto. Ma con te fu diverso. Sin da quando ti palesasti per la prima volta a me, non accennasti un segno: ieratica ed impassibile, occhi color mandorla perscrutanti
-Mi trovi cambiato? –
Un attimo di silenzio e poi scoppio in una risata fragorosa, ringraziando che nessuno oltre a me ci sia in questo muto corridoio. Ti parlo come se fossi davvero qui, amica intima tornata da un lungo viaggio. Riabbasso lo sguardo e mi appresto a tornare in reparto
“Si lo sei”
Mi giro di scatto. Plumbeo, guardo il bicchiere che conteneva prima il caffè, come se avesse potuto nascondere qualche strano intruglio. Non può essere. Un conto è compiacersi di ritrovare una pagina strappata del proprio passato in un angolo inaspettato del tuo presente, un conto è che esso ti parli!!! Troppo vecchio per fare tutte queste notti.
“Smettila, è bello ritrovarti”
Dunque davvero mi parli?
“Mauro, abbiamo sempre parlato noi due”, “Quanto tempo al cavalletto a perderci in infinite elucubrazioni, dubbi e perplessità?”
È vero. Mi infastidisce quanto mi conosce bene. Credo che sia il giusto prezzo da pagare per tutte le ore passate a guardarla da vicino. Non si può immaginare quanto io conoscessi bene ogni sua singola craquelure superficiale, mappa del tempo, come sottile dipanarsi del suo sistema vascolare.
Avevo amato ogni singolo gesto sicuro del suo creatore, pittore degli ultimi, dei pitocchi cosi dicevano. Per questo mi aveva così da subito ammaliato. Come se colui che l’aveva creata avesse per una volta indugiato su un proprio vezzo emotivo, prendendosi una pausa dal suo credo stilistico ed iconografico. Lei così misteriosa e al contempo vanitosa, greve nello sguardo ma lieve nel suo apparire futura donna dal ventaglio in mano.
“Se la tua più profonda paura è quello di essere cambiato, allora non posso che dirti di SI”, “Ma è una paura o una speranza?”
Rimango attonito. Bocca dischiusa che non proferisce parola. Mi metto solo a piangere. Come un bambino stupido e viziato. La verità è che la odio per quanto mi scava dentro. Mi ricorda tutto ciò che ho lasciato coscientemente e cosa stessi cercando, allontanandomi da lei. Guardami: capelli diradati, barba bianca, rughe che raccontano. Ancora probabilmente in cerca di me stesso. E tu? sempre la stessa, congelata nel tempo che fu. Eppure avevo creduto a Wilde e al suo Dorian Grey. Il dipinto sarebbe invecchiato in favore dell’uomo e la sua vanità. Mi hai ingannato
“Non hai ancora capito nulla nonostante gli anni passati. Cercavi allora di voler essere sempre qualcosa di diverso da ciò che eri. Dimenticandoti che nella tua incessante ricerca a voler esser custode hai dimenticato di custodire te stesso”
Rialzo lo sguardo. Non emette più nessuna sentenza. Visione che torna ammutolita. Mi chiederò sempre se era lei a parlarmi o me stesso. Forse ho bisogno di un altro caffè, nessuna luce in lontananza dalle finestre. L’alba è ancora lontana. Sia mai che un giorno possa rincontrarla in questi medesimi corridoi ; ricordandomi, severa, di quanto la vita non sia altro che l’incessante sovrapporsi di pennellate una sopra le altre e che nessun pittore, neppure il più sublime, abbia mai compiuto le proprie opere senza pentimenti.

Una madre
Ispirato all’opera di Bernardino Bergognone
Madonna del latte
«Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto»
Alla chiamata di Dio, la risposta è stata pronta. Mi hanno insegnato ad avere Fede nelle Sue Opere e a praticare la Dottrina, sono stata educata per essere degna della Sua Grazia.
Mai avrei potuto sperare di dare alla luce e crescere Suo Figlio, il bambino che adesso è tra le mie braccia.
«Avvenga di me quello che hai detto»
La gravidanza mi ha insegnato l’attesa e la pazienza, mi ha preparata al sacrificio. La mia gioventù, come quella di tante altre donne, si è immolata sull’altare della maternità: i giochi, le corse e la vivacità si sono tramutati in nausee, paure e senso di inadeguatezza, ma al mio fianco io ho avuto Dio e niente è impossibile a Lui. Ho sentito il mio ventre aprirsi al fiore che vi aveva seminato e infine sono stata pronta a coglierne il frutto.
Il parto mi ha concesso di entrare in sintonia con il creato. Mentre con le doglie affondavo il viso nella paglia della mangiatoia e cercavo il manto caldo delle bestie per fermare i crampi alla schiena, capivo il sacrificio della cagna e della vacca. Rivedevo il loro sguardo, febbrile per lo sforzo ma deciso, come di chi ha superato la disperazione e conosce la risposta a tutto quel patire. Il dolore vinto dalla necessità di procreare.
Poi ho finalmente stretto questo bambino tra le braccia e mi sono sciolta d’amore per lui. Il timore che covavo al pensiero di partorire il figlio dell’Altissimo ha lasciato spazio ad un sentimento nuovo: quel bimbo era una parte di me che ora viveva nel mondo staccata dal mio corpo, ed io non potevo più esistere senza di lui.
Abbiamo iniziato ad innamorarci.
Sono estasiata dalla sua bellezza: le dita dei piedi come minuscole perle, la conchiglia perfetta dell’orecchio, le labbra disegnate tra le guance piene e la punta del naso, gli occhi attenti e curiosi. Lo abbraccio e mi sento inebriata. Il nostro innamorarci è come l’inizio dell’estate, quando il sole scalda senza bruciare, la terra dà i primi frutti e non ha paura di inaridirsi e il vento sussurra nelle orecchie la promessa di qualcosa. La mia emozione cresce piano e si alimenta dall’interno, onda dopo onda, accompagnata ogni volta dal desiderio di stringerlo più forte, in un groviglio di sensazioni intense e uniche.
Non avevo mai provato l’amore, ed è stato il figlio dell’Amore ad insegnarmelo.
Mi trovo a percorrere con le dita tutta la superficie del suo piccolo corpo. La sua pelle è più delicata della seta e accarezzarla è un piacere per l’anima. Alla base della schiena, al di sopra delle natiche, la tenerezza raggiunge il culmine e con essa l’appagamento che ne scaturisce.
Le mie mani si poggiano sulla sua testa e si intrecciano ai suoi capelli, morbida peluria sottile come i germogli delle spighe di grano e ancora rada, come le prime margherite nei prati. Al centro della testa sento il sangue che pulsa poco più sotto e ritiro la mano, colpita dalla sua fragilità, che è anche la mia. Allora percorro la curvatura del cranio, raggiungo il collo e sprofondo il naso e il viso sopra la sua spalla. Nelle pieghe della cute assaporo il profumo del mio bambino, l’odore di latte, e lo respiro a grandi boccate, per mantenerlo impresso in me e ricordarlo quando crescerà.
I suoi vagiti sono pacati come l’acqua che scorre tranquilla nel ruscello, le sue grida di gioia sono i tonfi e le giravolte dei pesci nel lago, ma i suoi richiami, se non ascoltati, hanno la forza roboante della cascata.
Se appoggio l’orecchio sul suo piccolo petto, percepisco l’energico battito del piccolo cuore che dà il ritmo al balletto della sua vita.
Qualche volta, mentre lo sto allattando, prendo la sua manina e la tengo sospesa, lui si aggrappa, conficca le unghie nei miei polpastrelli e mi afferra. Mentre succhia al mio seno, solleva lo sguardo e mi vede; poi, come se non si fosse mai accorto che io sono proprio lì sopra la mammella, mi sorride. I suoi occhi profondi mi guardano attentamente e dicono «Resta con me, mamma, mi fai stare bene». È la mia epifania: lui è innamorato di me! Io sono sua madre! Questa scioccante rivelazione mi coglie impreparata ogni volta. Io sono una mamma, la sua mamma! Ne divengo consapevole quando afferra il mio viso tra le sue manine; quando piange disperato ma si tranquillizza se lo stringo al mio petto; quando cerca me con lo sguardo se la stanza è piena di persone; quando è felice e non ha paura se lo faccio volare alto nel cielo stringendolo tra le mie mani.
Lui non sa di essere Figlio di Dio, ma sa di essere figlio mio. E gli basta.
Mi è stato detto che questo bambino sarebbe diventato un grande uomo, un Santo, chiamato Figlio dell’Altissimo. Io bacio il suo viso e desidero per lui grandi cose perché ogni madre vuole il meglio per il proprio figlio. Già lo vedo mentre guida un esercito per difendere il nome di Dio e i comandamenti di Mosè, mentre rivoluziona il mondo e detta leggi di amore e fratellanza. Lo immagino mentre cambia i cuori degli uomini o battezza le genti o compie miracoli, perché no. Farà qualcosa di plateale e con esso salverà tutti noi. Eppure qui, in fondo al mio cuore, io non desidero che mio figlio sia grande, non chiedo che venga acclamato dalle folle e salvi il mondo. Io vorrei solo che lui fosse felice.
Dio ha disposto del mio corpo e io terrò fede alle mie promesse e alla Sua volontà, però adesso che sono qui col mio bambino, mentre lo nutro col mio latte e lo abbraccio, io vorrei tanto che crescesse libero di giocare con chi più gli piace, libero di sbagliare il suo percorso e tornare sui suoi passi, libero di scegliere un mestiere, dove costruirsi la casa e se farsi una famiglia, con il solo dovere di essere felice. Può sembrare un’impresa semplice, ma forse è difficile almeno quanto sciogliere il mondo dal peccato.
Io sono ancora la serva del Signore, ma ora che sono anche Sua madre, vorrei tanto che questa creatura non fosse Figlio di Dio, ma solo figlio del falegname.

Non siamo soli
Ispirato all’opera di Lorenzo Lotto
Sacra famiglia con Santa Caterina d’Alessandria
Le prime luci dell’alba sono sempre un momento magico. E ancor più lo sono in ospedale, dopo una notte di lavoro. Caterina conosceva bene quel momento e lo attendeva con stupore tutte le volte. Aveva per lei molti significati: un nuovo giorno che nasceva, un’atmosfera sognante, anche per la stanchezza, ma anche la gioia per aver quasi finito un turno.
Caterina era una persona sensibile, sapeva cogliere le sfumature della vita e degli eventi ed anche per questo, nella primavera del 2020 in una città come Bergamo, così duramente messa alla prova dall’epidemia del Coronavirus, era insofferente e stanca. Si sentiva impotente di fronte alla malattia. Avrebbe voluto poter fare di più per tutti quei pazienti sofferenti e soli, ma molte erano le incertezze e i dubbi. Era angosciata.
Una strana luce, di un’alba speciale filtra da una stanza di degenza. “Saranno le leggere nuvole grigie verso oriente a dare questo effetto” pensava Caterina. E quasi involontariamente si avvicina alla soglia. Sullo sfondo della finestra il verde acceso di un rigoglioso fico, senza frutti, dall’altra parte un gelsomino che incornicia un incantato paesaggio campestre. “Non avevo mai fatto caso a ciò che si vede da questa finestra. Che bello che il nostro ospedale si affacci sul parco e nella natura! Ma che atmosfera strana quest’oggi!” Un altro passo e Caterina entra nella stanza, attratta da qualcosa… “Chi sono quelle persone al letto del paziente? Le visite sono vietate per sicurezza in questo triste periodo di pandemia”. Sta per pronunciare queste parole, ma il volto della persona al centro della scena si gira verso di lei. E’ un uomo forte, barbuto, vestito di porpora e il suo sguardo amoroso le incute rispetto, calore. Caterina si sente all’improvviso piccola, umile e avvolta da una straordinaria sensazione di pace e tranquillità. Un’altra figura si staglia nella scena: è una donna, più giovane, con lineamenti delicati. E’ bellissima nel suo manto azzurro. Una luce dorata la illumina, regge un libro (di preghiere?) e volge il capo verso Caterina, che non riesce a reggere lo sguardo. Caterina non può far altro che abbassate gli occhi. Si china e nota un coinvolgente intreccio di mani e gesti eloquenti. La donna con mano dolce tende il braccio destro a proteggere il paziente, come solo una madre sa fare. L’uomo, con gesto delicato, solleva il lenzuolo scoprendo il paziente. Ma che succede … Caterina si sente confusa, come sospesa in una bolla aerea, la pervade una sensazione di conforto del cuore. Lei quella scena l’ha già vista, cosa le sta accadendo? E’ troppo stanca? Sta sognando? Caterina esce dalla stanza e si reca di corsa al piano terra. Sa dove deve andare: nella sala d’attesa degli ambulatori. Lì è ancora buio, c’è silenzio. Accende la luce, guarda la parete e per un attimo il paesaggio è vuoto. Ma un istante dopo è tutto al suo posto: la magnifica riproduzione della Sacra Famiglia con Santa Caterina di Alessandria di Lorenzo Lotto è lì nel suo immobile splendore. Caterina si siede su una sedia della sala d’attesa e ammira come tanti medici e pazienti la bellezza nell’opera d’arte. Adesso non è più angosciata. E’ più serena. Non è in grado di spiegare con logica l’accaduto, ma ora sa. Anche se non può salvare tutti i pazienti, loro non sono soli e neppure lei.

Sebastiano
Ispirato all’opera di Raffaello Sanzio
San Sebastiano
“Sebastiano, dove ti sei cacciato!? Devo parlarti! Vieni subito in cucina”!
Anna, la mamma di Sebastiano, era una donna esile e severa, tuttavia molto dolce con il figlio sedicenne, di buone maniere, eterno sognatore e sempre immerso nelle sue fantasie.
“Ormai sei adulto ed è giunto il momento che tu ti assuma delle responsabilità da uomo. Domani raggiungerai tuo fratello Nicola sul monte Bastia per accudire le pecore. Adesso và! Prendi il tuo zaino, mettici pane, formaggio, abiti e non dimenticare la canna da pesca”.
L’indomani all’alba Sebastiano era in cammino per raggiungere il fratello, che trovò al pascolo insieme alle pecore e al cane Gas Gas. I due fratelli, che da mesi non si vedevano, si scambiarono un lungo e caloroso abbraccio: nutrivano un profondo affetto reciproco. Festeggiarono con un pasto frugale e prima dell’imbrunire presero il sentiero sassoso per la grotta, dove insieme avrebbero trovato riparo durante le lunghe notti.
Dal fisico asciutto e muscoloso, erano entrambi alti e dai lunghi capelli castani. Mentre Nicola, dalla natura buona e onesta, aveva una folta barba, Sebastiano, che aveva ereditato la tenerezza dal padre, conservava un viso glabro, dai tratti fanciulleschi con labbra sottili, guance rosee ed un’appena accennata fossetta sul mento. Pareva un cherubino.
Dopo qualche giorno di buon mattino, Nicola si congedò dal fratello per far ritorno al borgo.
Le giornate di Sebastiano si susseguivano piacevolmente. Il ragazzo ogni giorno scopriva nuovi angoli di Paradiso: prati in fiore, corsi d’acqua cristallina, cascate spumeggianti e boschi con abeti che sembravano toccare il cielo. Il tutto contribuiva a rallegrarlo. Il suo cuore era in festa e per questo ogni sera prima di coricarsi, rivolgendo lo sguardo all’immenso cielo stellato, ringraziava il Signore pregandolo.
La rugiada mattutina brillava ancora, quando una mattina il pastorello si accorse che Pina, una delle sue pecore, aveva la pancia molto gonfia e cadente: era gravida! Dopo circa un mese Sebastiano vide che Pina si era appartata e giaceva distesa a terra; era iniziato il travaglio. Il ragazzo si avvicinò, con parole dolci accarezzò l’animale e facendosi coraggio prese le zampe dell’agnellino e lo aiutò a nascere. Lo scosse leggermente mentre la madre iniziava a pulirlo. Poco dopo era già sulle quattro zampe pronto a bere il latte.
Come paralizzato il ragazzo non riusciva a staccare gli occhi dall’animale: era color dell’oro. Una moltitudine di pensieri attraversarono la sua mente. Si sedette un po’ confuso e iniziò a riflettere.
“Ti chiamerò Dorina e per confonderti nel gregge e proteggerti ti ricoprirò con un impasto di acqua e terriccio”.
Ogni sera prima del tramonto, Sebastiano scendeva al lago per pescare e per lavare la sua nuova amica, riportandola al suo splendore. I due erano diventati inseparabili e trascorrevano interi pomeriggi giocando rincorrendosi.
Accadde che nei pressi di un fiume la pecorella, spaventata da una vipera, scivolò nell’acqua. Mentre Sebastiano prontamente le prestava soccorso, il sole che splendeva alto nel cielo, fece risplendere l’animale rimasto senza la sua protezione.
Quella mattina Marta era nell’orto, quando d’un tratto alzando lo sguardo verso il monte vide qualcosa che luccicava. Un luccichio abbagliante. Curiosa come solo la perpetua di un parroco può essere, con voce stridula, ordinò al nipote di andare a controllare. Di certo non si aspettava di sentirsi dire: “zia, non ci crederai! Ho visto una pecora tutta d’oro”. La notizia non tardò a spargersi in tutto il paese e fu così che il giorno della festa del patrono, in molti ebbero la stessa idea: approfittando della confusione dei festeggiamenti, andare sul monte per impossessarsi della pecora. Tra lo stupore generale, furono in molti a ritrovarsi sulla radura nei pressi del gregge, armati di archi e frecce. Neutralizzato il povero cane, che abbaiando vivacemente aveva annunciato il loro arrivo, Sebastiano si vide presto accerchiato. Decisi come non mai i manigoldi si fecero sempre più aggressivi, minacciando di morte il ragazzo se non avesse consegnato loro l’animale. Il giovane tanto coraggioso quanto indifeso, cercò in tutti i modi di dissuaderli. Prima che se ne potesse accorgere una freccia cadde in mezzo ai suoi piedi. Era un chiaro avvertimento, ma lui non si impressionò e non cambiò atteggiamento. Venne raggiunto ad una gamba da un dardo che lo fece inginocchiare a terra. Un dolore lancinante lo attraversò e ancor prima che potesse risollevare lo sguardo, una scarica di frecce si conficcarono nel suo corpo tanto da farlo sembrare un istrice. Il corpo di Sebastiano iniziò a grondare sangue e le vesti a macchiarsi.
Senza indugiare Dorina si avvicinò al ragazzo e si accovacciò al suo fianco. I due furono avvolti da un improvviso bagliore accecante, un gigantesco fascio di luce e, come per magia le frecce si incenerirono. L’animale aveva sacrificato la sua brillantezza sanando le ferite del pastorello e arricchendo di trame dorate le vesti ormai diventate di un rosso vivo.
I miserabili non potevano credere ai loro occhi: avevano appena assistito ad un Miracolo. Sconcertati e affranti tacitamente si allontanarono.
Sebastiano raccolse la freccia conficcata a terra e tenendola fra le dita rivolse un tenero sguardo angelico di ringraziamento a Dorina.

Siam bergamaschi e non conosciam confine
Ispirato all’opera di Costantino Rosa
Veduta della Piazza Grande di Bergamo
“Buongiorno signor Costantino, oggi ha in programma una visita di controllo del suo pacemaker; tra poco passerà Steven, l’autista del pulmino, per accompagnarla alla Clinica Gavazzeni”.
È la voce squillante di Debora, un’infermiera della casa di riposo, a svegliarmi di buon mattino. Dopo il lungo periodo d’isolamento causato dalla pandemia, posso finalmente uscire per qualche ora: durante il tragitto, mi sento come un bambino al primo giorno di scuola, emozionato e un po’ impaurito.
Arrivati in anticipo all’appuntamento, ne approfittiamo per un caffè al bar della Gavazzeni.
Prima di varcarne la soglia con la mia carrozzina, noto alla parete la riproduzione di un dipinto: “Veduta della piazza Grande di Bergamo”.
Il cuore inizia a battere all’impazzata: mi ritornano in mente i miei trent’anni, le giornate trascorse in Città Alta, era così bella che decisi di immortalare quei momenti felici.
Dopo aver abbandonato a fatica la carrozzina, mi avvicino zoppicante alla parete, allungo il mio braccio tremante.
Il barista Ettore mi ammonisce: “Scusi, non può toccare!”.
Troppo tardi, improvvisamente mi ritrovo catapultato in Piazza Vecchia.
Respiro profondamente: riconosco le botteghe e le taverne d’un tempo, riscopro odori e rumori che avevo dimenticato.
Avverto la vivacità delle persone intorno a me, indaffarate e festose, è una confusione che non mi disturba, ma che rallegra il mio animo.
Volgendo lo sguardo verso il Palazzo della Ragione, rimango attratto dalla maestosità della Torre Civica che domina la piazza.
Proprio in quell’istante il Campanone scandisce puntuale l’orario mattutino.
La Fontana Contarini attira la mia attenzione, gli schizzi d’acqua mi sfiorano; ricordo quando, da bambino, attingevo da essa per rinfrescarmi.
Passeggiando per la piazza, sento il mio corpo, vecchio e malato, nuovamente rinvigorito e libero.
Il cielo si sta rannuvolando, sembra che verrà a piovere da un momento all’altro: sarà il caso di ripararsi sotto il portico.
“Signor Costantino, il dottore ci starà aspettando”: il richiamo di Steven è dolce, ma allo stesso tempo insindacabile.
Dopo aver salutato le persone vicino a me, sento un tuono in lontananza, il cielo non stava mentendo.
Tempo scaduto: capisco che il mio viaggio in Città Alta è finito, recupero mestamente la mia carrozzina.
Uscendo dal bar, con la coda dell’occhio volgo un ultimo sguardo alla parete: la paura di non rivedere mai più Piazza Vecchia mi addolora molto.
Dopo molti anni ho ritrovato la “mia” Piazza Grande, accogliente come allora, un luogo familiare e sicuro per chi la vive.
Attraversando il corridoio che conduce all’ascensore, scorgo dalle vetrate gli imponenti edifici di Città Alta che svettano sullo sfondo, ad un palmo dal cielo.
Un brivido mi attraversa e fa scendere una lacrima.
Dopo molti anni rinchiuso in una casa di riposo, senza sogni né speranze per il futuro, ho capito che anche un vecchio può emozionarsi ed essere felice.
La visita con l’elettrofisiologo scorre veloce, il mio pacemaker funziona perfettamente.
In pochi minuti ci lasciamo alla spalle la clinica, direzione casa di riposo.
Penso alla sofferenza dei mesi passati, alla gioia appena provata, emozioni contrastanti che hanno come denominatore comune Bergamo, la città in cui sono nato e in cui morirò, la città che amo profondamente.
Un virus maledetto ha messo in ginocchio l’umanità, evidenziando i limiti e l’imperfezione di una società in cui l’uomo si sente invincibile ed onnipotente.
In questi mesi abbiamo constatato l’estemporaneità dell’esistenza, la fragilità del presente e l’incertezza del futuro: una lezione da non dimenticare, una lezione che Bergamo e i Bergamaschi non dimenticano!
Oggi come due secoli fa, Piazza Vecchia è tra i simboli della città e dei suoi abitanti.
Bergamo ha combattuto con dignità un nemico invisibile e sconosciuto, ha visto cadere i suoi soldati più valorosi, ma oggi rinasce con le sue sole forze, senza vittimismo né retorica.
I Bergamaschi non sono angeli, non sono eroi.
I Bergamaschi non sono la conta di morti ed ammalati annunciata ogni giorno in tv.
Siam bergamaschi e non conosciam confine.
Ringraziando per l’iniziativa “La Carrara in Humanitas”, pongo cordiali saluti.
Costantino R.

Ieri come oggi
Ispirato all’opera di Costantino Rosa
Veduta della Piazza Grande di Bergamo (Piazza Vecchia in Bergamo Alta)
Arrivava ogni sera verso le 19.00. Non aveva nulla che potesse colpire al primo sguardo, né trucco né abiti appariscenti. Le piaceva passare inosservata, ma tutto sommato le dispiaceva altrettanto. Per i pochi che avevano l’opportunità di conoscerla davvero era una di quelle persone difficili da ricordare, ma una volta conosciuta, impossibile da dimenticare.
Aveva tutta l’aria di essere una persona forte, una di quelle che aveva fatto della solitudine una scelta di vita. A dire la verità, era solo un modo per tenere nascosto il suo dolore, il suo passato sofferto, perché tanto nessuno avrebbe cercato di portare a galla ciò che aveva vissuto e provato sulla pelle. Era schiva nei sentimenti, si era convinta che non facessero per lei, perché c’erano in giro fin troppo sentimentalismo e altrettante menzogne, e n’era disgustata. Tuttavia non era immune ai turbamenti della vita, ma li nascondeva bene dentro di sé, cercando di non lasciar trasparire nulla, anche se qualche sera si concedeva il lusso di piangere e si lasciava abbracciare dalle sue fragilità. In fondo, sperava ancora di incontrare qualcuno che provasse a toglierle di dosso quella sua corazza. Avrebbe smesso così di spacciare per vero ciò che in realtà era il suo alter ego, di mostrarsi sicura quando in realtà era piena di paure e di incertezze. Aveva l’abitudine, dopo il lavoro, di fermarsi al bar in centro, proprio sotto casa, soprattutto in primavera, quando mettevano i tavolini all’aperto. Era un modo per darsi importanza, per poter dire all’occorrenza di essere rimasta fuori casa fino al tramonto. Ordinava sempre un analcolico alla frutta che sorseggiava lentamente, finché il ghiaccio si scioglieva del tutto, finché il sapore spariva completamente. Si portava un libro da leggere e spesso si perdeva tra le pagine che leggeva tutte d’un fiato, attorcigliandosi una ciocca di capelli tra le dita. Alzava raramente lo sguardo, succedeva quando veniva interrotta dalla risata cristallina di un bimbo o da un tono di voce eccessivamente alto. Allora si permetteva di guardarsi intorno per qualche istante e di osservare con cura i dettagli. Aveva notato il nuovo cappottino rosso sfoggiato dalla sua vicina di casa, che aveva sempre una manicure impeccabile e il viso un po’ più stanco dell’anziano edicolante che amava vestirsi in maniera molto elegante, come un gentiluomo d’altri tempi. Quando finalmente il sole spariva dietro il campanile, si alzava dal suo cantuccio e se ne andava silenziosamente.
Lavorava in quel bar da poco più di due mesi. Lo faceva per mantenersi gli studi anche se la paga era esigua, ma gli amici non mancavano mai di passare a trovarlo tutte le sere per farsi offrire un drink. L’aveva notata una sera per caso. Occupava sempre lo stesso posto e ordinava sempre lo stesso cocktail. Era rimasto affascinato dal suo modo di isolarsi dagli schiamazzi e dal frastuono della piazza. La osservava mentre si sistemava con noncuranza una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Pensava che un giorno l’avrebbe invitata a bere un caffè. Ma poi arrivavano gli amici che lo distraevano con la loro esuberanza. Sopraggiungeva la sera e senza che se ne accorgesse, lei se n’era già andata ..
Poi accadde qualcosa di inimmaginabile. Un virus che non lasciava scampo si era diffuso rapidamente sconvolgendo la vita di tante persone e cambiando abitudini consolidate nel tempo. Le persone smisero di uscire e la piazza si svuotò delle grida e del brusio che la rendevano viva. Lei, che abitava sopra quel bar che era solita frequentare, si spaventò di quel silenzio surreale. La solitudine invece, non le faceva paura. Dopotutto si sentiva più sola in mezzo alla gente.
Erano trascorsi due mesi, la vita faticava a tornare alla normalità, tante cose erano cambiate, lui si aspettava di ritrovarla al solito posto, con un nuovo libro tra le mani, con la mascherina sul viso. L’aveva lasciata d’inverno, l’avrebbe ritrovata che era ormai estate, l’avrebbe riconosciuta dagli occhi. Si era rimproverato di non averle chiesto il nome.
I giorni passavano, ma di lei nessuna traccia, sembrava tra l’altro che non fosse mai stata notata. Non voleva certo temere il peggio, o pensare che fosse solo frutto della sua immaginazione.
Si era convinta che nonostante tutta la sofferenza dilagante, quel tempo isolata dal resto del mondo non le era dispiaciuto. Nel frattempo aveva lavorato da casa: traduceva libri per una nota casa editrice. In verità quel virus le faceva ancora paura: si era portato via la sua vicina di casa, quella con il cappottino rosso e le unghie curate e quell’anziano vestito in maniera molto elegante. Così aveva deciso di starsene a casa ancora un po’ e sebbene da un mese si potesse uscire, con le dovute precauzioni, ogni sera dalla finestra osservava l’andirivieni della piazza, ascoltando le voci un po’ più sommesse di un tempo. Era davvero arrivata l’estate.
Aveva dato l’ultimo esame e si era laureato. Era pronto a premiarsi con una lunga vacanza tra amici. L’indomani sarebbe stato l’ultimo giorno di servizio in quel bar. Ormai temeva che non l’avrebbe più rivista.
Era piovuto tanto quella notte, l’aria si era rinfrescata e il cielo era di un azzurro mai visto. Si era svegliata di buonumore e con una dose di coraggio in più che non le apparteneva. Decise che quel giorno sarebbe tornata alle sue abitudini. Aspettò che arrivassero le 19.00, l’ora che lei preferiva, perché il sole si acquietava un po’ rendendo più nitidi i contorni. Scese le scale lentamente e si sedette al solito posto.
L’aveva vista arrivare da lontano, le era sembrata più piccola e sperduta che mai, con la pelle pallida di chi non vedeva il sole da tempo. La raggiunse in un istante, le tese la mano e le chiese con voce decisa: “Ti andrebbe un tramonto?”
Lei alzò gli occhi stupita, li fissò nei suoi per un tempo che parve interminabile. Poi lo guardò, lo riconobbe e lo seguì.

La rivincita
Ispirato all’opera di Cesare Tallone
Ritratto di Maria Gallavresi bambina con la madre
Quella mattina Lucia aveva deciso di trascorrerla ricamando. Odiava ricamare, ma era un’attività ideale quando, inquieta, doveva apparire calma e rilassata.
Maria le gironzolava intorno come volesse chiederle qualcosa e non ne avesse il coraggio. Aveva tredici anni e cominciava ad interessarsi alle idee ed ai pensieri di sua madre, intuiva che quel suo modo calmo e distaccato nascondeva ben altri umori.
Era una ragazzina piena di immaginazione. Tutto la incuriosiva. La vita era stata generosa con lei, godeva di buona salute, aveva genitori affettuosi, viveva in una bella casa, non le mancava nulla, lo dicevano tutti. Lucia, sola, sapeva che a breve anche sua figlia avrebbe bramato qualcosa con tutta se stessa, ma per ora gioiva del suo vivere felice, studiando, leggendo, sognando.
Lucia ricamava e mille pensieri le si aggrovigliavano in testa, onde tempestose domate in brume lacustri.
Sentiva parlare spesso di libertà. Ne parlava il marito preparando i suoi discorsi politici, lei stessa istintivamente ribelle alle consuetudini, ne parlavano i servitori, sottovoce, o il precettore di Maria esaltato dagli eroi classici, ma Lucia era certa che nessuna di quelle libertà le sarebbe bastata.
Era ancora una bambina quando capì che nella sua vita avrebbe fatto qualcosa di importante se solo avesse conquistato una libertà maggiore di quella di sua madre. Libertà di pensare con la sua testa, di impegnarsi solamente in ciò che avesse ritenuto importante, di costruire il futuro secondo le sue aspirazioni, a questa libertà anelava!
Credeva di poterla conquistare con l’impegno. Aveva studiato da sola dopo il ritiro dalle lezioni, rubando i libri del fratello maggiore. Aveva imparato a suonare il pianoforte ad orecchio, rifiutando i noiosi maestri. Faceva echeggiare il magnifico strumento del salotto nel silenzio del mattino, ma nessun ospite aveva goduto del suo talento. Aveva l’abitudine di leggere tutto ciò che trovava in casa sottolineando i passaggi interessanti, cercava e ascoltava solo le persone che riteneva più intelligenti. Discreta, rubava con occhi e orecchie per carpire l’essenza della vita che ancora, francamente, le sfuggiva.
Il coraggio non le mancava ma era un coraggio silenzioso, nessuno si accorgeva realmente di lei, tranne Maria che era una ragazza arguta e riflessiva, molto più di quanto avesse sperato sua madre, preoccupata per il suo destino di donna.
Il legame fra le due diveniva più stretto man mano che la ragazza cresceva guidata dalla forza dello sguardo di Lucia, la persona più enigmatica e affascinante che avesse conosciuto.
Maria sapeva chi era sua madre, lo aveva intuito assistendo alle discussioni fra lei e suo padre: lui la ascoltava argomentare, calma, consapevole, poi la zittiva bruscamente rimanendo pensieroso per ore. Lo aveva percepito ascoltando con quale trasporto suonava il piano, lo aveva capito quando difese la giovane cameriera umiliata da un ospite. Aveva cinque anni e si era aggrappata alla sua gonna mentre Lucia, ritta al centro del salone, aveva atteso che la nobiltà pomposa uscisse di casa e che il marito sfogasse la sua ira.
Finalmente Maria si fece coraggio, si accomodò accanto a sua madre e in un soffio:
-Madre, devo dirvi una cosa importante!-
-Di cosa vuoi parlarmi?-
-Ricordate? qualche settimana fa vi chiedevo dei vostri progetti per il mio futuro e voi dicevate che i progetti non li fanno i genitori, che la vita era la mia! Ebbene ho un progetto madre, ma voi dovete aiutarmi!-
Lucia, divertita dal tono melodrammatico della figlia, ripose in grembo il ricamo e si rivolse alla ragazza:
-Cara, sono qui per te, puoi dire tutto alla tua mamma-
Maria non colse l’ironia:
-Madre, ho deciso! voglio diventare un Medico!–
Lucia saltò in piedi facendo cadere la tela incorniciata nel cerchio che rotolò lontano.
-Sì mamma, lo so, non è quello che vi aspettavate da me, ma è quello che voglio essere! E’ quello che voglio fare! Ho sempre pensato che avrei dovuto impegnarmi in quello per cui mi sento portata! Voi me lo avete insegnato!–
Il tono di Maria ora era cambiato, i suoi occhi fiammeggiavano, era in piedi anche lei con un piglio sicuro mai scorto prima. Lucia ricordò quando, poco più che quindicenne, aveva affrontato suo padre, non sposò il suo buon partito. Le sembrò di sentire nuovamente bruciare la guancia sinistra. Quante volte, come allora, aveva inghiottito lacrime d’orgoglio, ma stavolta era un orgoglio tutto nuovo che le inumidiva il ciglio.
Si sedette composta, cercando di calmarsi. Maria, pensò, non sapeva di cosa stesse parlando.
-Figlia mia, lo so, ti ho insegnato io che la vita è un dono di cui solo tu puoi disporre, ma tu esageri! Ti rendi conto che saresti una delle prime donne ad iscriversi alla facoltà di Medicina? Che dovrai misurarti con decine di uomini per trovare un impiego. Ti rendi conto che dovrai rinunciare ad avere dei figli? Non troverai un marito capace di considerarti sua pari, dovrai farti perdonare i ritardi, le preoccupazioni, lo studio! Anche alcune donne si sentiranno offese dalla tua scelta, dovrai combattere contro tutti per realizzare questo “sogno”! Sarai sola!-
-Si lo so! So tutto, madre, ma non sarò sola, non dovrò combattere contro di voi! Voi mi aiuterete, ne sono sicura! I tempi stanno cambiando madre! Non temete!-
Strillò allegra Maria e, come un passerotto, cominciò a saltellare felice girando in tondo nella stanza a braccia aperte.
Guardandola Lucia ricordò improvvisamente, con sollievo, che era solo una bambina.
-Facciamo così cara, se sarai ancora di questa idea quando aggiungerai il cerchio alla gonna, allora ne riparleremo, per ora sarà il nostro segreto!-
Raccolse il tedioso “lavoro” e si sedette, era in un turbine di dolore, disillusione, amore, speranza.
Sospirò e decise: quel cavallo insulso del cartamodello lo avrebbe rappresentato con gli zoccoli anteriori rampanti. Sì, era più appropriato!

Sindrome di Stendhal
Ispirato all’opera di Cesare Tallone
Ritratto di Maria Gallaresi bambina con la madre
e di Pittore ligure
San Girolamo che leva la spina al leone
Sono sempre stato una persona con una spiccata immaginazione, ovunque io mi trovi riesco a creare il mio mondo e le mie storie.
Nonostante questo, non avevo mai creduto che, una persona di fronte ad un quadro, potesse avere una sorta di trip talmente forte, da vivere la scena.
La Sindrome di Stendhal è una sindrome che porta una persona ad avere vertigini, tachicardia e allucinazioni di fronte ad opere d’arte, soprattutto se esposti in luoghi piccoli.
La mia idea cambiò radicalmente, quando, nel luogo dove lavoro, vennero appesi come murales gigantografie di opere d’arte.
Arrivai una mattina, non facendoci molto caso, non avevo preso il caffè e il mio livello cognitivo era sotto le scarpe.
Una donna con una bimba sorridente al suo fianco, mi guardava mentre timbravo il cartellino, avevo l’impressione che i loro occhi mi seguissero e mentre mi allontanavo potrei giurarci la bimba mi aveva fatto l’occhiolino.
Andai veloce verso la macchina del caffè, in un modo o nell’altro dovevo reagire, possibile che stessi dormendo ancora, quel buonissimo liquido scuro mi avrebbe fatto tornare alla normalità.
Vicino ai dispenser con mia sorpresa trovai un altro quadro, ricopriva l’intera parete con i suoi colori forti, sentivo come se avesse violato, con la sua presenza, uno spazio intimo che usavamo per aggregazione prima di iniziare il lavoro, ma stranamente quella mattina non c’era nessuno, rimaneva solo quell’immenso quadro che mi stava guardando.
Raffigurava un uomo, intento a togliere una spina dalla zampa di un leone, dietro di lui si stagliava la campagna dorata.
Avvenne tutto in un attimo, come in una scena al rallentatore, vidi il mondo intorno a me sfuocarsi, mi guardai le mani, si allungavano verso la parete, seguite dalle braccia, poi dal resto del corpo, avevo l’impressione che stessi diventando un disegno, il quadro mi stava risucchiando, svenni.
Aprii gli occhi, vidi il cielo azzurro sopra di me, ero sdraiato su un prato, percepivo sotto le dita delle mani l’erba morbida, percepivo il profumo dei fiori, sentivo il vento rinfrescarmi la pelle, una cosa era diversa, il colore delle cose, tutto sembrava dipinto, colori accesi, irreali.
Quella sensazione di fece più forte quando guardandomi mi ritrovai vestito come l’uomo del dipinto.
Una lunga tonaca rossa mi copriva fino ai piedi, ero diventato una parte del quadro.
Dovevo trovare qualcuno, Mi incamminai su un sentiero ghiaioso che portava ad un villaggio poco distante.
Era un piccolo borgo, i piccoli viali fatti in pietra separavano le case, e conducevano alla via principale, poi sulla piazza
M’incamminai, la gente del paese era accalcata di fronte alla finestra del municipio, dove il sindaco stava parlando. «La situazione è grave, la bestia ormai da tre giorni semina paura nel villaggio»
«Abbiamo provato a mandare quattro uomini e sono scappati dopo averla vista» disse il sindaco.
La gente cominciò a bisbigliare.
Mi accorsi che qualcuno mi tirava la veste, mi girai e con gran sorpresa mi trovai di fronte la ragazzina del dipinto alla timbratrice, «che ci fai qui?» le dissi «cercavo tè» mi rispose sorridendo il vestito bianco che aveva nel quadro aveva lasciato il posto ad una vestito a fiori, due occhi azzurri allegri e sorridenti, mi fecero passare ogni timore verso di lei «mi serve il tuo aiuto per salvare qualcuno» la guardai e le dissi «chi dovrei salvare?»
«La bestia» rispose continuando a sorridere.
Non ero mai stato un coraggioso e l’idea di andare ad aiutare un animale non mi allettava per nulla, lo dissi apertamente.
«Io invece si, vieni con me?» mi guardò con due occhioni che mi sciolsero all’ istante «va bene che dobbiamo fare?»
«Dobbiamo cercarlo, devi sapere che attacca per un motivo, quando lo vedrai capirai».
Mi prese per mano, uscimmo dal borgo e iniziammo la ricerca dell’animale.
Ci inoltrammo verso una brughiera, sempre mano nella mano, la bimba mi raccontava di come si era ritrovata catapultata in questo quadro per cercarmi, visto che sapeva il motivo della rabbia dell’animale, stava per dirmi cosa spingeva la bestia verso il villaggio, quando con un gran ruggito l’animale si presentò di fronte a noi.
Quasi svenni sentendo quel suono, la bestia tanto temuta era un leone enorme, identico a quello dell’affresco.
Ruggì di nuovo senza avvicinarsi a noi, il viso era dolorante, continuava a indicare qualcosa con la testa ma non capivo «ha una scheggia in una zampa, è il motivo per cui entra in paese ha bisogno di toglierla ma nessuno lo capisce e scappano impauriti»
«Li capisco» risposi «avrei fatto la stessa cosa anche io, ma vediamo di dargli una mano, io lo avvicinò e tu gli togli la spina dalla zampa d’accordo?» lei annui «stai dietro di me e fino a che non te lo dico resti ferma.»
Il problema era farlo avvicinare senza spaventarlo, la cosa migliore era che mi avvicinassi io, ma come fare, non era un dolce gattino, ma un possente bestione di qualche quintale con denti aguzzi.
A piccoli, passi, mi avvicinai al leone, la bimba dietro di me, il leone immobile, sembrava miagolasse dal dolore, ero ormai a qualche centimetro, continuavo a guardarlo negli occhi, era un gatto cresciuto, ma pur sempre un felino, aspettai che cambiasse lo sguardo, sintomo che cominciava a fidarsi di me, allungai la mano verso di lui e cominciai ad accarezzarlo, la sensazione del pelo morbido sotto le dita mi vece venire i brividi.
Mentre lo carezzavo il leone chiuse gli occhi con l’altra mano presi la zampa dove conficcata tra le dita una scheggia di legno, chiamai la bimba e le dissi di estrarre la scheggia usando due dita a mo’ di pinze, anche la bambina sempre sorridendo, non distolse mai lo sguardo dal leone, mentre con una mossa veloce estrasse la scheggia, il leone si avvicino al viso della bimba e gli diede una leccata, ridemmo entrambi
«Adesso come facciamo a non fargli dare la caccia?» chiesi alla bimba che senza tentennare oltre si avvicinò al leone e gli Salì in groppa, il leone la prese su di sé senza nessun problema, cosi tornammo in paese e raccontammo la storia a tutti.
Il leone diventò il guardiano di quel piccolo borgo, la bimba in una nuvola di fumo, ritornò nel suo quadro dove la madre l’aspettava, io non ebbi il tempo di salutare, mi ritrovai con il caffè in mano, davanti al quadro.
Da quel giorno, ogni volta che timbro il cartellino, saluto la bambina che ricambia, strizzando l’occhio,

ROSSO LATTE
Ispirato all’opera di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto
“Bepi! Bepi! Guarda là! Arriva la carrozza della Signora! C’è anche la tò stregàsa! C’è la tua bella rossa sul carét!”
“Scccc…. Teresì, non urlare, che i tà sènt!”
Giuseppe, detto “Ol Bepi”, arrossì, ma in cuor suo avrebbe abbracciato quella sorella impicciona, tanta era la sua felicità.
Ogni estate la Signora, con le figlie e la servitù, veniva a soggiornare nella casa su in valle, per prendere il fresco e respirare l’aria buona.
Sarà – pensava Ol Bepi – ma io so solo che in estate c’è da alzarsi presto all’alba, come tutti gli altri giorni dell’anno, andare a mungere le vacche, portarle al pascolo, fare il fieno, e che peso su e giù con quelle gerle!
Ma oggi sono felice! Rivedrò i suoi capelli sciolti al vento, sbarazzini come papaveri, eleganti come gigli! E lei che se li tiene sempre tutti legati in quella crocchia di treccine e si vergogna del suo rosso, che tutti la chiamano strega, ma per me lei è una principessa. Più Signora della sua Signora.
La Teresì mi prende in giro perché dice che mi si infiamma il viso per l’emozione quando la ragazza viene a prendere il latte, e poi dice che non si capisce mai se è triste o contenta, “perché c’ha quello sguardo lì strano, da strega”. Lo dice apposta per farmi arrabbiare.
Ma a me, quel viso, mi pare di un angelo. Dovrò prendere coraggio e chiederle il suo nome, che così forse Teresina smetterà una buona volta di chiamarla “la strega” o “la rossa”.
“Buongiorno, vengo a prendere il latte” disse la ragazza con un filo di voce.
“Buongiorno signorina. Ecco il Vostro latte. Se volete ve lo posso portare io il secchio, che devo venire giù al paese”
“Va bene” disse lei abbassando appena lo sguardo, con quell’espressione che Teresina avrebbe definito indecifrabile.
Si incamminarono lungo la strada. L’aria frizzante del mattino la fece rabbrividire e si strinse nel suo scialle. O forse era la vicinanza di quel giovanotto e del colore ambrato del suo viso a farla tremare? Quanto era pallida lei, al suo confronto. “Son più bianca di questo latte” – pensò.
Ma lui vide solo il rossore affiorare sulle sue guance. Non aveva occhi che per il porpora delle sue labbra. Ah! Avesse potuto rubarle un bacio!
Camminavano vicini, in silenzio, ognuno seguendo il battito del proprio cuore e dei propri pensieri.
Ogni tanto lui le rivolgeva lo sguardo e un timido sorriso.
“Scusate, signorina, posso sapere il vostro nome?”
“Mi chiamo Clara, e voi?”
“Avete un nome bellissimo, Clara. Il mio nome è Giuseppe, ma tutti mi chiamano Bepi”
Erano passati circa 30 anni da quell’estate ed ora, in quella vecchia casa abbandonata, ritrovava in un angolo dei vecchi quadri impolverati. Per un periodo pare che lì vi avesse soggiornato un pittore, un tale Pitocchetto, e la sorpresa fu grande quando si trovò davanti al volto che turbò i suoi sogni di adolescente, quella fanciulla dai capelli rossi e lo sguardo smarrito, la sua Clara. Ancora ricordava il suo nome e il silenzio imbarazzato che accompagnava le loro camminate giù al paese, mentre le loro dita si sfioravano come per sbaglio.
Quante volte avrebbe voluto dirle “Da grande vorrei sposarti”. Ma le parole rimanevano appese lì a quel nodo invisibile che gli attanagliava il verbo.
Bella, anche se bella non era, Clara. Chissà chi le aveva prestato quegli abiti ed il ventaglio per farsi ritrarre in un quadro. Non sembravano certo i cenci che indossava quando veniva a prendere il latte. Chissà cosa aveva visto in lei quel pittore, perché l’aveva scelta?
Non l’aveva più rivista da quella estate, ma ora avrebbe potuto avere per sempre con sé quel quadro ed i ricordi più dolci della sua giovinezza.