Tony Laudadio
Cinque ritratti immaginari
Tony Laudadio
Cinque ritratti immaginari
Ritratto immaginario 1
Ritratto di Giovanni Benedetto Caravaggi
(Cariani – dipinto intorno all’anno 1520)
Cariani (Giovanni Busi)
Ritratto di Giovanni Benedetto Caravaggi
Sono un uomo cattivo. Sono un uomo cattivo ma nessuno lo sa.
Non lo sanno i miei concittadini, non lo sanno i miei amici, non lo sanno i miei genitori o i miei figli, e non lo sa neanche mia moglie. Ma lo sono, fin da quando uomo non ero. Sono nero, dentro, là dove pare abiti l’anima, e ho colorato la mia maschera con i toni più sgargianti per nascondere quell’oscurità. La beneficenza, una famiglia amorevole, una laurea in medicina e la professione caritatevole, e poi una laurea in filosofia, per apparire interessato alle vette dello spirito. In questo secolo di rinascita, qui dove mi trovo, in Italia, al centro del mondo, dove c’è la fonte della bellezza, e da essa fonte la bellezza sgorga inesauribile e magnifica, e irriga i campi di tutta Europa, qui io sono il grande inganno, la facciata abbellita di orpelli e fregi che nasconde le crepe profonde di mura marce. Io sono il sepolcro imbiancato.
Stamattina sono venuto nello studio di questo grande pittore che si dice sia capace di stendere sulla tela i volti e la pelle con mano morbida, lieve.
“Il ritratto,” mi ha detto mia moglie, “devi farti fare il ritratto! Ogni grande uomo in città si è fatto fare il ritratto dal Cariani. È segno di grande distinzione.”
E allora mi sono detto che se c’era qualcuno che poteva coprire bene l’orrore che mi porto dentro, poteva essere solo un pittore dalla mano dolce, un pittore che col suo tratto perdona e rende luminoso anche il buio. Ed eccomi qui.
“Ora cerchi di restare fermo per qualche minuto e mi aiuti a renderle giustizia.”, mi ha detto prima di iniziare. E io ho cominciato a tremare, e il terrore si è materializzato in piccoli rivoli di sudore che ora scendono dietro la mia schiena, sotto questi abiti lussuosi e superbi, buoni a nascondere più che a rivelare.
Rendere giustizia? No, non è questo che voglio. Se c’è una giustizia, io sarò smascherato e il male che ho fatto sarà la mia rovina. No, non mi renda giustizia, pittore, ma copra le rughe, cancelli i buchi della mia pelle, nasconda il bianco dei miei capelli e il nero sotto i miei occhi. Copra tutto, mi seppellisca sotto dieci strati di colore, di quelli più vistosi. Mi sono ricordato, ora, mentre il pittore prepara la scena e mi osserva e impasta i colori e di nuovo mi osserva, mi sono ricordato di quel che mi ha detto mia figlia, quando stamattina sono uscito di casa: “Papà! Quel pittore è capace di cogliere l’anima delle persone!”
I brividi mi percorrono incessanti. Mi leggerà l’anima costui? Ne farà materia d’arte, esporrà le mie bassezze al pubblico ludibrio, ove per tutta la mia vita ho provato ad allontanare gli sguardi? Da dove troverà la mia anima, mi chiedo, se non dagli occhi? E infatti lo vedo che mi scruta, attento, con la fronte corrucciata come se già potesse intravedere qualcosa, al di là di questi due buchi neri che porto sulla faccia. Se è capace, come dice mia figlia, di vedere l’anima, allora sono perduto.
Guardo altrove. Guardo fuori, il sole è alto anche se non fa caldo come dovrebbe in questa primavera che stenta ad iniziare. Provo a distrarmi, penso ai miei impegni di cittadino: domani ci sarà una grande festa nella mia casa, come ogni mese di maggio, per ringraziare e benaugurare i frutti della terra. Tutti verranno a trovarci, i nobili del paese, i borghesi, i mezzadri, e persino gente del popolo verrà a portare doni alla mia famiglia. E io stringerò a tutti le mani, magnanimo, generoso come solo gli uomini con la coscienza sporca sanno essere. Penso a domani, alla gioia di mia figlia. Tra poco avrà l’età di cercare marito, è una donna, ormai, e io la guardo geloso e fiero. Aveva la sua età, la ragazza aveva la sua età.
Il pittore mi riporta nel momento. Mi chiede di guardare verso di lui, deve farsi un’idea dei miei occhi. Mi chiede di fissarlo. È questo il pericolo più grande, ora vedrà tutto e poi metterà il mio segreto sulla tela, così che ogni volta che qualcuno guarderà il mio ritratto, si renderà conto di quale mostro era quest’uomo, da qui all’alba dei secoli. Fissato per sempre nella vergogna. Tutti potranno leggere la sporcizia. È questo l’arte allora, mi chiedo senza parlare, fissare nell’eterno un brandello di breve verità? Lo guardo adesso, fisso negli occhi, con coraggio. Affronto l’abisso e sento che qualcosa di me travasa fuori, qualcosa che doveva restare immobile per sempre. Lui mi osserva per qualche secondo. Poi distoglie lo sguardo, disgustato, o questo è quello che mi sembra.
“Alba o tramonto?” mi chiede con aria distratta. Non capisco. Che vuol dire alba o tramonto? Non so rispondere e lui chiarisce:
“Lo sfondo, dietro di lei, dalla finestra, deve sembrare più un’alba o un tramonto?”
Mi volto, non ci avevo pensato. Il pittore può cambiare il tempo, scegliere quello che preferisce. Il pittore può fare ciò che vuole, il pittore può falsificare. Mi chiedo se posso chiedergli di falsificare i miei occhi e dipingerli come se fossero senza peccato. Saprebbe farlo? O questo è troppo persino per lui? Non so scegliere se alba o tramonto, lascio a lui la scelta. E lui sceglie il tramonto perché un uomo di lettere è più affascinante se lo si immagina seduto alla finestra mentre il sole cede il passo alla notte e lui si accinge a profonde riflessioni sull’esistenza e sull’umanità, sul lato oscuro dell’essere. Lo guardo di nuovo fisso. Poi glielo chiedo.
“Lei avrà pietà di me?”
Mi interroga con gli occhi.
“Pietà?” poi dice “Lei ha la mia ammirazione, non la mia pietà.”
“Sì, ma lei che è capace di cogliere l’anima delle persone, adesso vedrà le mie colpe.
“Avrà pietà?”
Il pittore sorride, forse mi considera ingenuo. Io considero lui ingenuo. Poi annuisce e comincia a preparare la tela con i colori di fondo. Dopo un po’ mi guarda di nuovo e mi dice:
“Non c’è colpa che l’arte non possa perdonare.”
Mi colpisce e mi solleva. Sarò perdonato, quanto meno dall’arte. E d’altra parte è metà della mia vita che ci penso e non mi perdono, mi condanno, mi redimo.
Io non mi perdono ma non volevo farle male, non volevo. Lei era così bella.
Il Piccio – Autoritratto
(dipinto nel 1838 circa)
Piccio (Giovanni Carnovali)
Autoritratto
È che ho visto una ragazza. Passeggiava nel paese con una veste povera ma molto graziosa. I suoi occhi invece erano ricchi, un lusso, che forse i suoi genitori non potevano permettersi. Posso dire che mi sono innamorato di lei un minuto dopo averla incontrata. La grazia con cui metteva un piede dopo l’altro nel passare una pozza d’acqua su tre o quattro pietre, un ponte per quei preziosi piedini, mi hanno tolto il fiato. Ho osservato la scena di lontano, senza presentarmi.
Camminavo, come al solito, senza alcuna meta. In queste zone mi conoscono.
È arrivato il Piccio, mi gridano, e io sorrido e faccio un cenno con la mano. E poi a volte a casa dipingo quei volti, pieni di breve allegria e molta fatica, dove la terra è padrona e ti rende schiavo e affamato, in una giostra senza fine di sveglie all’alba, fatica e di nuovo sonno, poco e agitato. Ma lei, la ragazza, era fuori posto, lì, in quel mondo, era una goccia di miele sulla lingua sporca di polvere e fango. Allora ho smesso di andare. L’ho osservata, fin dove ho potuto, fin dove la decenza non diventasse malizia.
Giacinta! L’ho sentita chiamare. Giacinta, certo. Non poteva essere che un fiore.
Quella mattina sono tornato a casa e mi sono fatto questo ritratto. Ho pensato di donarlo a lei, come pegno. Ecco, le avrei detto, questo sono io, e ora sono tuo. Glielo avrei detto sorridendo, perché non mi prendesse per un pazzo o un criminale, con la gioia di donare che è propria dell’amore. Amore, posso usare questa parola senza paura. Perché chi stabilisce quanto tempo è necessario a far diventare un qualsiasi sentimento, amore? A me è bastato così poco, e però è stato così irresistibile. Mi sono messo allo specchio, guardandomi nel profondo e mi sono detto: questo dev’essere il ritratto migliore della tua intera carriera, dovrà essere magico, sconvolgente, tenero. Ci ho messo una settimana, curando ogni dettaglio, come se ne andasse della vita di qualcuno. E in effetti ne andava della mia.
Sono tornato da quelle parti, con il mio ritratto avvolto in molti stracci e chiuso con una semplice corda, con un fiocco. Non era un pacco particolarmente curato ma contavo che lo fosse il contenuto. Ho cercato il luogo dove l’avevo incontrata, quella striscia di terra, le case dei fattori, i carri. Quel giorno non c’era nessuno per la strada, sembrava un giorno d’inverno ma era maggio e c’era il sole. Arrivai al centro del paese, alla chiesa grande. Gruppi di persone, parlottavano tra loro senza sorrisi sul sagrato. La chiesa era fregiata a lutto. C’era un funerale.
“Chi è morto?” ho chiesto come se conoscessi tutti lì intorno.
“La piccola Giacinta.” mi è stato detto.
L’involto che avevo tra le mani mi è caduto. Un signore gentile me lo ha raccattato e restituito.
“La conosceva?” ha aggiunto candido.
“No” ho dovuto dire. Sono tornato indietro, disperato.
L’amo ancora.
Ritratto di Maria Gallavresi bambina con la madre
(Cesare Tallone, dipinto nel 1889)
Cesare Tallone
Ritratto di Maria Gallavresi bambina con la madre
Mia madre si chiama Alma e per questo mio padre le dice sempre: “Tu sei la mia anima!”. Ma lo dice quando è di buon umore, quando una battaglia politica è andata a buon fine, quando i lavoratori hanno ottenuto un diritto, quando le sue idee vengono ascoltate. Purtroppo non capita spesso.
“Emilio,” le risponde mia madre, quando è a sua volta di buon umore “l’anima è tua, io ne sono solo la custode.”
Io faccio finta di non sentire quando parlano così, ma poi arrossisco e sorrido. E mia madre lo sa quello che sento, lo sente quello che vedo.
Poi, il mese scorso, è successo che questo pittore, tale Cesare Tallone, è venuto a casa nostra. Voleva parlare con mio padre della condizione dei contadini, del ruolo della pittura nell’emancipazione umana, della sua volontà di rinnovare l’arte e darle una radice più realistica, più legata al vero. Naturalmente si trovarono su questi argomenti perfettamente d’accordo.
“Tallone è un uomo affascinante,” ho sentito dire da mia madre a mio padre, quando lui è andato via. Solo questo, niente di più. Eppure negli occhi di lui ho visto scintillare un’espressione lugubre, una luce nera, d’improvviso. Non ha risposto e mia madre lo ha notato. Si fosse morse la lingua, diceva a se stessa, ne sono sicura. Io ho solo quattordici anni, non conosco i tormenti dell’amore, ma ricordo il viso di entrambi, in quel momento, e ricordo di aver pensato che mai, mai nella vita, potrò innamorarmi, se questo è l’amore.
Qualche giorno fa, mio padre è arrivato in casa con una novità. Durante il pranzo domenicale, ha cominciato a parlare della fotografia. Ormai stava superando la pittura, diceva, almeno per quanto riguardava i ritratti. Sono veri, senza possibilità di alterazioni, specchio fedelissimo di ciò che appare agli occhi. La pittura, sosteneva, è sempre una fantasia del pittore, anche quando vuole essere realistica. La pittura si prefigge di ingannare, la fotografia di mostrare.
Capii subito perché diceva quelle parole: voleva costringere mia madre a prendere le difese della pittura e quindi, di quel pittore. La provocava. E pensai che se lo avevo capito io, di sicuro l’aveva capito mia madre, che stupida non era. E infatti lei non rispondeva, annuiva, a tavola, mentre spostava le portate e passava il pane. Infine mio padre aggiunse: “Però se ti piace tanto, potrei farti fare un bel ritratto dal tuo bel pittore.”
L’ombra violenta della gelosia scese in un attimo sulla tavola, lasciando tutti in silenzio. Mia madre lo guardò, come se volesse strappargli la lingua dalla bocca.
Come se stesse dicendo: smettila, rovinerai tutto. Ma non disse nulla. E mio padre lo prese per un assenso. Ha fatto tutto lui, tutto da solo, mia madre non gli avrebbe mai dato questa soddisfazione. Cedere a una provocazione tanto infantile.
Un grande quadro, ha ripetuto ieri, prima dell’appuntamento fissato allo studio del pittore, un quadro enorme, da tenere qui, nel salone principale, a imperitura memoria della battaglia persa della pittura contro la fotografia.
Stamattina quindi mia madre si è preparata per il ritratto, nella sua stanza. Lui gironzolava per la casa come un animale in gabbia, osservando ogni dettaglio dei gesti della moglie, a volte sorridente, beffardo, a volte amaro, supplicante. Mia madre aveva pietà di lui ma non parlava e non sorrideva. Per attenuare la sua rabbia inutile, però, aveva scelto un vestito nero, castigatissimo, da lutto, con soli pochi gioielli discreti ed eleganti. Ma neanche questo bastava, mio padre continuava a provocare e ritrattare, in un duello con se stesso continuamente perso.
“Sarete voi due soli, nello studio, per un lunghissimo tempo…” ha poi sussurrato, guardandola dallo specchio. E finalmente mia madre ha smesso di assecondarlo.
“Maria!” mi ha urlato “Metti il vestito bianco, quello nuovo. Vieni con tua madre dal pittore, per fare il ritratto. Lo faremo insieme.”
Ho visto negli occhi di mio padre il pentimento prendere un colore scuro. Come se avesse ricevuto una bastonata sul capo, tutta la forza gli è venuta a mancare. Si è seduto sulla sedia in camera da letto, mentre mia madre lo guardava fisso e aggiungeva un po’ di trucco al volto per rendersi meno pallida, senza riuscirci.
Siamo uscite di casa insieme, dieci minuti dopo, e mia madre non lo ha salutato. Io invece sì, l’ho abbracciato.
E lui mi ha stretto forte. Lo so che è buono.
E ora eccoci qui, nello studio del pittore, entrambe immobili come statue davanti a lui che ci osserva come fossimo oggetti.
Vorrei che il nostro ritratto fosse felice, vorrei far vedere a tutti che bel sorriso ha mia madre, quando vuole sorridere. Così appoggio la mia testa sul suo braccio. Lei lo sa che io capisco, lei lo sa che deve avere pazienza. Ma oggi non sorriderà. E il nostro ritratto, appeso nella grande parete destra del salone, quella più in vista, resterà a imperitura memoria della stupidità degli uomini.
Ritratto di giovane pittore
(Fra’ Galgario, dipinto intorno al 1732)
Fra’ Galgario (Giuseppe Ghislandi)
Ritratto di giovane pittore
Il mio giovane apprendista è uno spasso. Non credo abbia ancora tredici anni e mi segue già da tre. Il piccolo pittore mi procura una tale tenerezza e allegria che non ho potuto togliermi dalle mani la tentazione di dipingerlo.
Lo guardo spesso, a sua insaputa, mentre tutto intento pulisce i miei pennelli, prepara la colla, ripone i colori. Se ne sta lì con quel lieve broncio, rotondo nella sua grazia infantile, e pare quasi poterlo vedere, pochi anni prima, ancora preso dai giocattoli della prima età, pare quasi che ancora di questo si tratti, di giocattoli per il suo svago. Mi riempie di soddisfazione l’idea di consentire a lui di imparare l’arte eccellente con questo tono di scherzo, di pura spensieratezza, che farà di lui un pittore felice, un pittore che farà felici le tele.
E poi, il piccolo, ha un’altra caratteristica che riesce a darmi un sorriso anche nelle giornate più lunghe e nere, egli balbetta un poco. Le parole, ogni tanto, si inceppano tra i denti, come se non trovassero la strada, la via d’uscita, e si ritrovassero intrappolate tra la lingua e il palato di quella boccuccia fresca. Quando gli accade, se ne vergogna, arrossisce, china il capo, e mi verrebbe voglia di prendere le sue guance e tirar fuori direttamente dalla sua bocca quelle parole incastrate, aiutarlo con le dita a farle scivolare fuori. E allora provo con la dolcezza di una carezza, di un lieve bacio, a donargli la tranquillità e la sicurezza per riprendere il filo del discorso, e magari voleva solo aggiungere: “ho dimenticato”. Lui poi mi guarda riconoscente e risponde al mio bacio. E così, per questi minuti di leggerezza che questo giovanetto dona alla mia vecchiaia, ho deciso di fargli un ritratto. Vorrei renderlo immortale, vorrei lasciarlo nel tempo, così come lo vedo adesso, che tutti lo vedano così, negli anni, nei secoli che verranno. E che lui non abbia a patire la tortura di una vecchiaia, che non la conosca, che non la debba maledire come faccio io, ogni santo giorno di ogni mese dell’anno.
La mia età ormai volge agli anni peggiori e ancora sono qui, per carità cristiana, a sopportare le ingiurie di ciò che non sopporto: donne avvizzite dalle stagioni che pretendono da me un dipinto che le renda giovani e belle, fanciulle capricciose che sfacciate mi chiedono di riprendere le loro forme, quelle che a nessuno dovrebbero essere mostrate, salvo forse nelle notti di nozze, e di mostrarle al mondo, senza pudore, senza costume. E i miei pennelli, no, tutto questo non lo possono accettare, né immaginare. La tristezza profonda dei miei pensieri, in queste occasioni, mi spinge alla fuga. Scappo, letteralmente, corro via dalla stanza, ove la donna si denuda. E mi rifugio da questo giovanetto, da questa mia salvezza, che ora smorza il sorriso e sembra quasi, così, sorridere di più, perché il suo sguardo vuole farsi grande, adulto, maggiore. È così buffo, è così amabile. Quanto mi sei caro, mio giovane chierichetto, alla mensa del mio amore per l’arte, all’altare dove celebro la bellezza. Vieni qui, siediti alla mia tavola, sulle mie gambe, voglio ancora che le tue guance rosse soffino via dalla mia pelle di anziano la polvere dell’età. Voglio tornare come te: innocente e sublime. Vieni, giovanetto, dammi un bacio.
Ritratto di fanciulla con ventaglio
(Giacomo Ceruti detto Pitocchetto, dipinto nel 1740 circa)
Pitocchetto (Giacomo Ceruti)
Ritratto di fanciulla con ventaglio
Mia madre mi voleva mandare dal Frate, a Bergamo, quello che gli piacciono i ragazzi, ma lui appena ha saputo che si trattava di una giovinetta ha alzato le mani terrorizzato, quel vecchio bavoso. E quindi hanno scelto questo qui, che se lo chiamano il Pitocchetto ci sarà un motivo. E ora mi dice di sorridere, bella pretesa.
Questo studio è pietoso, sporco, impolverato, questo pittore magro come se non mangiasse da anni e scavato e vecchio, e mia madre ha insistito perché indossassi questo vestito che non ho mai sopportato, per non parlare di questo ventaglio. Non ho proprio nulla di cui sorridere, caro il mio Pitocchetto, e tu stesso faresti meglio a restare serio, non hai molto da gioire e di sicuro non resterai alla storia.
Farmi fare il ritratto, poi, per quale motivo? I soldi che abbiamo in famiglia non sono molti e di sicuro andrebbero spesi per le necessità essenziali. Ma mia madre dice che l’arte è di gran voga, oggidì, e questo pittore che dipinge solo poveracci, ce lo possiamo permettere, non costerà molto. Secondo me costerà sempre più di quanto dovremmo dargli, cioè nulla. E poi, dice mia madre, devi ormai cominciare a pensare a come trovare marito. Ecco, questa è la verità, questo è il motivo del ritratto, farne mostra ai giovanetti locali e sperare che qualcuno ne rimanga folgorato. E come potrebbe, se mi manda dal Pitocchetto? Parla sempre di questo, della mia età e della necessità di guardarsi intorno. Ma che fretta c’è, dico io.
“I tuoi capelli, amore mio…” mi dice ogni tanto.
“Cos’hanno i miei capelli?” chiedo, fingendo di non ricordare le tante volte che me lo ha ripetuto.
“Sono rossi, piccola mia, non sarà facile trovarti uno sposo!” conclude con un sorriso.
Sostiene che le rosse vengono ancora oggi, nella nostra epoca moderna, considerate predisposte alla stregoneria. Ma possibile? Ancora adesso, nel 1740, si possono credere queste sciocchezze? E poi, seguendo queste convinzioni, non sarebbe stato meglio coprire i miei capelli con un velo o con un cappello? Mia madre non sa cosa dice, copia quello che fanno le sue amiche e pretende di essere all’altezza degli altri. Possibile che io, alla mia età, debba essere la donna più responsabile in casa? Ma è l’ultima volta, lo giuro, fatto questo ritratto non sarò più così accomodante. Il marito me lo trovo da sola, non avrò bisogno di nessuno, anche a costo di fargli un incantesimo.
Biografia dell'autore
Tony Laudadio, diviso fin da giovanissimo tra la musica, il teatro e la scrittura, ha continuato a coltivare le tre arti per tutta la vita. Dopo la formazione teatrale alla Bottega di Vittorio Gassman e la ultradecennale collaborazione con Toni Servillo, si dedica alla drammaturgia del Novecento (in collaborazione con colleghi come Andrea Renzi, Enrico Ianniello, Nicoletta Braschi e il regista Francesco Saponaro). Accanto alla carriera d’attore, che lo ha portato a collaborare al cinema, in televisione e a teatro con molti grandi registi (Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Marco Risi, Eduardo De Angelis), ha sviluppato la passione per la scrittura, specialmente per il teatro, mettendo in scena molti suoi testi (Sconosciuti e Lontani – La farsaccia vincitore Premio Troisi nel 1999 e Gracias a la vida vincitore premio Girulà nel 2001, scritti con Enrico Ianniello, e suoi più recenti Un anno dopo, Birre e rivelazioni (con debutti al festival Milanesiana) e, infine, Il tempo è veleno, Napoli Teatro Festival, a cui seguirà nel gennaio 2020 con la produzione Teatro Mercadante la commedia Tossine.
Del 2009 è la sua prima pubblicazione, una raccolta di testi teatrali per la casa editrice Spartaco, dal titolo Teatro Fuorilegge e nel 2013 esce il suo primo romanzo Esco, edito da Bompiani e finalista al Premio Scerbanenco. L’anno successivo esce già il secon-do romanzo Come un chiodo nel muro, di nuovo per Bompiani. Nel 2016 approda in NN Editore, casa editrice milanese con cui pubblicherà i due romanzi successivi: L’uomo che non riusciva a morire (2016) e il recente Preludio a un bacio (2018), vincitore Premio Selezione Bancarella. Sempre con NN è prevista nel 2020 l’uscita del nuovo romanzo.
Pur rimanendo sullo sfondo, la musica rimane la sua vera vocazione.
Opere a cui è ispirata questa storia
Collocazione riproduzioni
Humanitas Castelli A2
Alcune immagini sono state scattate prima del DPCM del 23 febbraio 2020.