Oliviero Bergamini
Di viaggi e di fortezze
Oliviero Bergamini
Di viaggi e di fortezze
Sulla collina che domina Kabul, ogni venerdì pomeriggio si scatena la battaglia degli aquiloni.
Decine, forse centinaia di bambini e adulti costellano la grande spianata da cui si vede, in basso, il brulicare fumoso della città. Da soli, o a piccoli gruppi, con uno strano miscuglio di allegria e concentrazione fanno roteare nel cielo i loro leggerissimi strumenti di morte.
Ogni aquilone è legato a un filo, ma è un filo speciale, che gli ambulanti vendono in grossi rocchetti scintillanti: un filo cosparso di quelli che sembrano granelli di sabbia – o forse microscopici frammenti di vetro – che lo rendono straordinariamente tagliente.
Gli aquiloni volano altissimi, diventano minuscoli contro il fondo del cielo celeste, e lassù ingaggiano i loro silenziosi duelli. Questo è il gioco: pilotare il proprio aquilone in modo che con una manovra improvvisa, una virata o una picchiata, magari sfruttando un colpo di vento, il proprio filo incroci il filo dell’aquilone di qualcun altro e lo tagli di netto.
A questo punto l’aquilone liberato impazzisce, comincia a scendere ondeggiando tra sussulti e torsioni, come un animale ferito in agonia.
È allora che entrano in scena i “cacciatori di aquiloni” che hanno dato il titolo a un romanzo fortunato di alcuni anni fa. Decine di bambini accorrono per accaparrarsi l’aquilone morente. Simili a uno stormo di uccelli sul terreno, ondeggiano, si disperdono, si ricompongono, avanzano, indietreggiano, cercando di indovinare la traiettoria di caduta. Ognuno brandisce un lunghissimo ramo di palma, che alza verso l’alto per toccare per primo la preda e conquistare il diritto a impossessarsene. Non sempre l’aquilone ebbro di libertà e di dolore cade vicino. A volte il vento lo fa precipitare nel vallone che scende verso la città. Allora la torma dei bambini scende a rotta di collo per la scarpata, sollevando una nuvola di polvere da cui emergono solo le fronde ondeggianti dei rami di palma, chissà come sempre puntate verso il cielo. A volte, l’aquilone cade più in là, nella zona delle tombe. Perché la sommità della collina che domina Kabul è anche un cimitero. Innumerevoli sepolcri la punteggiano, circondati da piccoli recinti sbilenchi di ferro arrugginito, decorati da bandiere verdi, il colore che nel Corano è associato al paradiso. Allora i bambini, con le loro tuniche biancastre, corrono avanti e indietro tra le tombe e le bandiere, sempre issando i loro rami di palma, come in un labirinto fantastico visto in sogno.
Uno dopo l’altro gli aquiloni cadono, i bambini li conquistano ed esultano, a volte se li contendono in piccole esplosioni di litigi.
Altri aquiloni si librano, il cielo si riempie delle loro forme colorate e leggere, sempre più piccole man mano che i manovratori li lasciano salire in alto per rendere più micidiali i loro agguati. Nuovi duelli, remoti e letali si consumano nel silenzio della distanza. La città lontana, un ammasso di piccole case che dal basso risale lungo le colline circostanti, sembra appartenere ad un altro mondo. La sera scende. La polvere e la luce che si fa impercettibilmente via via sempre più debole si mescolano; un pulviscolo dorato avvolge ogni cosa. All’improvviso ne emerge una visione: un cavallo, cavalcato da un bambino. La sua sagoma magra e vigorosa prima si intravede scura muoversi nella grande nuvola di polvere giallastra, poi avvicinandosi si fa più nitida. È un animale magnifico. Se ne indovinano altri, che si muovono in vari punti della spianata, nel chiarore luminescente che ormai l’ha invasa mentre la fine del giorno si fa sempre più vicina. I proprietari li portano quassù per farli cavalcare a chi è disposto a pagare qualche soldo. Si è circondati dai loro movimenti, rapide corse, impennate, passi nervosi, nitriti e grida, mentre il bambino in groppa al cavallo che si è avvicinato per primo, ormai a pochi passi, ti guarda con uno sguardo serio e curioso, senza ostilità, ma senza sorridere.
La battaglia degli aquiloni come metafora – forse troppo facile – dell’Afghanistan senza pace: tutti contro tutti, senza un vero motivo. La magia della sera sulla collina con le luci, i movimenti, il garrire delle bandiere funebri al vento, le corse dei bambini, la danza dei cavalli nelle nuvole d’oro, l’assenza totale di donne – tutti, qui, sono maschi – come caleidoscopio di quanto di bello e di feroce, di poetico e di squallido, di vitale e di oppressivo ha da offrire questo luogo martoriato.
Herat, nel nord dell’Afghanistan, dove per anni si è concentrato il lavoro del contingente militare italiano, non è lontana dal confine con l’Iran, erede di un altro impero meraviglioso: quello persiano. La città è dominata da una cittadella possente. A fondarla fu Alessandro Magno. L’uomo che morì a soli 33 anni dopo essersi impadronito del mondo nella più straordinaria – ed effimera – avventura di conquista mai compiuta.
Stando in piedi tra le mura di quella cittadella, pensare di trovarsi esattamente nello stesso punto dove migliaia di anni fa quell’uomo era stato in piedi, accarezzato dallo stesso vento che accarezzò lui, dà quasi una vertigine; fa sentire al centro dell’immenso vortice del tempo.
Ai piedi della fortezza c’è un mercato, un piccolo labirinto di bancarelle. I lembi svolazzanti delle tende che le proteggono dal sole, fanno balenare scorci delle mura ocra della fortezza. Sui banchi di legno sporco, cataste di frutta e di verdura, tagli di carne di capra tempestati di mosche, e mucchi variopinti di spezie, il cui profumo è così penetrante da sembrare quasi prensile.
Poco più in là, in un piccolo isolato di stradine strette, altre botteghe. Alcune vendono burqa. Le tuniche azzurre che qui coprono completamente i corpi di ogni donna, pendono tristemente appese in mostra, le une accanto alle altre, come fantasmi afflosciati.
Altre botteghe vendono bauli di ferro, ricavati interamente da latte di olio per auto. L’interno ne conserva ancora l’odore nauseante, mente l’esterno è dipinto di palmeti e piccole case dai tetti rossi adagiate nel cavo di una montagna, o sulla riva di un fiume. Paesaggi idilliaci, di sapore quasi caraibico. Colori pastello, ben diversi da quelli brillanti della enorme moschea blu. Le sue mura sono lastricate di piastrelle scintillanti al sole, con i loro arabeschi nelle tonalità del turchese e del celeste. Man mano che si usurano e si corrompono, vengono continuamente rinnovate, ci spiegano. E ci guidano nel laboratorio dove incessantemente se ne fabbricano di nuove. Attraversare la soglia significa entrare in una passato medievale; un grande ambiente a cupola, una penombra soffusa, attraversata dai porosi cilindri di luce che piovono dalle finestre in alto. Dentro, i lavoranti che impastano i quadrati di argilla, e li portano a cuocere in un forno che dà l’impressione di essere acceso da secoli. Nella stanza adiacente si preparano i colori. Dentro ciotole di pietra, i lavoranti schiacciano pigmenti con pestelli di legno. Il cavo delle ciotole si riempie di paste umide, dalle tinte più incredibili. Verdi dove riconosci l’erba lussureggiante delle strisce di campi che riempiono il fondo delle valli grigie. Blu che evocano l’intensità dei lapislazzuli che hai visto lavorare a donne in un magazzino. Rossi e arancioni che sprigionano melograni, arance, albe e tramonti.
Gli uomini e i ragazzi interrompono il loro lavoro per sorriderti, curiosi. Alcuni sono chiaramente affetti da sindrome di Down. Poi riprendono con un ritmo lento il loro lavoro che non ha fine. Da qui sono usciti milioni di piastrelle variopinte, che per secoli hanno lastricato e continuano a lastricare la grande moschea. E nessuno vede un motivo perché questo non possa durare per sempre.
Che il tempo passi, che le cose cambino, lo dicono però i grandi minareti pendenti alla periferia della città. Anch’essi un tempo erano ricoperti di meravigliose ceramiche, ormai quasi interamente cadute, così che oggi gli alti cilindri di mattoni hanno una superficie scura e butterata. Sono tutto ciò che rimane di una enorme e famosa scuola coranica, che gli inglesi fecero saltare in aria alla fine dell’Ottocento durante una delle infinite guerre con la Russia zarista. Oggi quei minareti un tempo fieri e scintillanti appaiono abbandonati, fragili, precari. Il più famoso di loro è tenuto in piedi da cavi d’acciaio installati anni fa da una società italiana. Non lontano, un negozio vende i meravigliosi vetri di Herat. Bicchieri, brocche, bottiglie, soffiate a mano dai pochissimi artigiani che ancora portano avanti questa tradizione millenaria. Vetri dalla pasta densa, non privi di impurità, grossolani e rozzi rispetto alle trasparenze perfette dei cristalli europei. Ma dai colori unici; un verde chiaro soffuso di ocra, un rosso rubino, un azzurro nebbioso, e soprattutto un blu così intenso da attirare dentro di sé lo sguardo per imprigionarlo nel minuscolo abisso di un calice.
Canaletto (Antonio Canal)
Il Canal Grande da Ca’ Foscari verso il ponte di Rialto
Di tutti i paesi che Marco Polo attraversò nel suo lunghissimo viaggio, l’Afghanistan è quello rimasto più simile a come lo vide lui. Non si potrebbe immaginare nulla di più diverso da Venezia.
Una enorme massa di montagne brulle, lontana dagli oceani, povera, aspra, eppure chiave del dominio dei continenti su cui si consumò il “grande gioco” della competizione tra Gran Bretagna e Russia; il luogo dove entrambi gli imperi, inglese e russo, hanno conosciuto sconfitte cocenti.
Venezia, la regina dei mari, l’impero più aperto e liquido della storia. Creato da una città che non doveva esistere, inventata e creata a sua volta su un labirinto di isolette instabili, rese solide dalla incredibile foresta di pali piantati nel terreno fangoso dagli abitanti. E poi capace di irradiare nel mondo i suoi commerci, la sua intelligenza e la sua energia, rendendoli strumenti di dominio e di potere di portata ben più ampia dei territori fisici mai conquistati. Un impero quasi immateriale, fatto di viaggi, di scambi, – certo – di battaglie sanguinose, capaci a volte di determinare la storia: nella battaglia di Lepanto che fermò l’espansione turca il contributo delle grandi galeazze veneziane fu decisivo.
Eppure un filo lega quel mondo e questo. È il filo dei viaggi di cui l’ordito della storia è intessuto a formare una trama sottile e preziosa. Viaggi compiuti da mercanti in cerca di ricchezza, da guerrieri avidi di conquiste, da solitari bramosi di dare un senso alla vita.
Un filo che attraversa il tempo e lo spazio, taglia i deserti, solca i mari, si perde e si attorciglia nelle città per proseguire al di là, ancora, senza mai fermarsi.
Al viaggio si contrappone la stasi, all’avanzare il trincerarsi. All’addentrarsi in terre sconosciute, solcare mari seguendo le rotte che portano lontano, si contrappone il fermarsi, il proteggersi.
Alle carovane e alle flottiglie si contrappongono le mura.
Persino Alessandro Magno non sfuggì a questo dualismo. Il suo uragano di conquiste che dimostrò e poi incarnò nel modo più estremo possibile la precarietà di regni e imperi costruiti dall’uomo, lasciò dietro di sé una teoria di cittadelle difensive; quella di Herat soltanto la più affascinante e meglio conservata.
Anche Venezia lo fece. Le mura che la proteggevano nel suo periodo di massimo slancio, si disse, erano mura di legno. Erano le fiancate delle sue navi da guerra, e forse ancor più delle sue navi mercantili, che imbrigliavano il Mediterraneo e l’Oriente con armi ancora più potenti, quelle dell’interesse, del prestigio, ciò che oggi si chiamerebbe “soft power”. Ma gradualmente anche la Serenissima andò disseminando il suo proteiforme dominio di fortezze; capolavori di ingegneria militare così mirabili che oggi di esse – svanita la funzione di guerra – resta una possente bellezza. La più grande, la più mirabile, è Bergamo. Una città interamente trasformata in fortezza per proteggere la Repubblica a Ovest. Impresa enorme per l’epoca.
Costantino Rosa
Veduta della piazza Grande di Bergamo (Piazza Vecchia in Bergamo Alta)
Ancora oggi camminando sulle Mura Venete, addentrandosi nella Città Alta, fino alla Piazza Vecchia, se ne può percepire nelle ossa il senso profondo. Ci si sente all’interno di un gigantesco guscio, una enorme corazza di pietra che ci circonda e ci copre le spalle. Qui è tutto familiare, le strade, le scalette, la piazza davanti al palazzo della Ragione che per Le Corbusier era tra le più armoniose del mondo. Il mondo è là fuori, misterioso e vago. Lo si può osservare dall’alto, affacciandosi dagli spalti orlati di ippocastani, piatto e lontano. Lo si può occhieggiare attraverso l’apertura onirica di Porta San Giacomo, là dove la rampa che scende oltre le mura, curvando sembra scomparire all’improvviso nel nulla, come se la città fosse sospesa in alto, al di sopra della foschia della pianura che si stende a perdita d’occhio nella distanza.
Nelle spalle il brivido rassicurante dell’essere dentro una cerchia chiusa; negli occhi l’invito del mondo. Le mura di Bergamo, così statiche, ferme, rocciose sono state costruite da Venezia, la regina dei mari, del vento, degli scambi e degli incontri, quando ha cominciato a sentirsi insicura di sé. Quando le forze della storia hanno cominciato a sollevare altri regni, altre potenze, altri sogni.
Fortezza e viaggio. Chiusura e apertura. Le due energie, i due poli dell’essere. Microcosmo e macrocosmo. Viviamo incatenati tra due infiniti, diceva Blaise Pascal, l’infinitamente piccolo degli atomi che ci compongono e l’infinitamente grande dell’universo che ci circonda.
Per tollerare questa tensione conosco un solo modo. Raccontare storie.
Come fece Marco Polo, narrando dei suoi viaggi a Rustichello da Pisa, mentre entrambi erano in carcere. Ne nacque Il Milione, enciclopedia dell’Oriente che affascinò generazioni e ispirò, tra gli altri Cristoforo Colombo (dopo la morte del navigatore genovese, tra i suoi averi ne fu trovata una copia, meticolosamente annotata). Come cercano di fare, umilmente, tanti giornalisti. Non a caso le radici del loro mestiere nacquero proprio a Venezia. Qui nacquero i primi giornali (la “gazzetta”, che diede loro il nome, era una moneta veneziana), i quali raccontavano – soprattutto – di viaggi, commerci, imprese e avvenimenti di terre lontane.
L’Afghanistan è quasi esattamente a metà strada tra Venezia e la Cina. Un impero ormai dissolto, tanto fragile oggi da rischiare di essere letteralmente sommerso dalle acque, ma che si è cristallizzato in un tesoro di insuperabile di bellezza, ed ha seminato nella storia germi vitali di libertà e democrazia, e un impero gigantesco, in dirompente crescita, traboccante di progresso tecnologico, ma che soffoca ogni libertà e distrugge il proprio passato.
Forse è per questo che in quel paese si può avvertire così chiaramente il ritmo irregolare della storia. Gli aquiloni che volano sopra Kabul mentre i signori della guerra continuano a tramare i loro giochi di potere e di sangue. L’enorme potere che la religione, le tradizioni, anche più oppressive e ingiuste, esercitano sulle menti per la loro capacità di rassicurare, semplificare, guidare nel labirinto dei giorni. Il blu insondabile dei bicchieri visti nel bazar di Herat, accatastati tra monili e tappeti di un bazar che evoca carovane lontane. Il luogo da cui quelle carovane partivano, la città eretta sul mare, dove scivolano navi e gondole, dove i confini tra terra e acqua si annullano, come era prima della creazione. Le tante città murate sparse nel mondo, il loro ingenuo, inutile e commovente sforzo di resistere alla quieta furia del tempo. Il bisogno inesauribile di protezione e di viaggio.
Dicono che quando tornarono dall’Oriente, dopo più di vent’anni, vicini e conoscenti non riuscivano a riconoscere Marco Polo e suo padre, tanto erano cambiati. Si convinsero solo a fatica. Solo dopo che loro ebbero scucito le proprie vesti, facendone uscire una cascata di rubini e altre pietre preziose.
Biografia dell'autore
Oliviero Bergamini è corrispondente RAI dagli Stati Uniti. Entrato in RAI per concorso nel 1996, in passato è stato inviato per TG3 e TG1 in molte aree di crisi (Iraq, Afghanistan, Libano, Birmania, Corea del Nord, etc.), dove ha realizzato numerosi servizi e reportage. In seguito è stato responsabile della Redazione Cultura del TG3 RAI e di quella Esteri del TG1.
È autore di numerosi libri sugli Stati Uniti e sul giornalismo, tra cui Storia degli Stati Uniti (Laterza), Democrazia in America? (Ombre Corte) e Da Wall Street a Big Sur, un viaggio in America (Laterza), La democrazia della stampa (Laterza). Ha insegnato a lungo ‘Storia del Giornalismo’ e ‘Storia degli Stati Uniti’ presso l’Università degli Studi di Bergamo, ed ha tenuto lezioni in diversi altri atenei e scuole di giornalismo.
Attualmente vive e lavora a New York.
Opere a cui è ispirata questa storia
Collocazione riproduzioni
Humanitas Gavazzeni D1 Alcune immagini sono state scattate prima del DPCM del 23 febbraio 2020.