Quando mi guardi così mi sento come un animale in gabbia costretto a esporsi alla fila ininterrotta dei visitatori senza sapere perché. I tuoi occhi sono visitatori su di me. Non ci sono sbarre tra i nostri corpi, eppure io sento che c’è nel tuo sguardo qualcosa che mi pone dietro a un ostacolo, un’invisibile filtro che ci divide e protegge. Se poi protegga te o me, confesso che non l’ho capito ancora. Non è mai chiaro dove abiti davvero la paura tra di noi. È meglio, penso.
Pittore ligure, da Rogier van der Weyden e bottega
San Girolamo che leva la spina al leone
Hai mai visto un leone? Non al circo, dico, o in una gabbia allo zoo. Intendo proprio un leone nel suo ambiente, una bestia libera che non ha mai conosciuto la cattività. Se la risposta è no, allora puoi credere a qualunque storia sui leoni. Di fatto è proprio questo che la maggioranza delle persone fa: crede alle storie sui leoni. Piace pensare che siano gatti grossi, per esempio; o che possano mettere da parte la propria natura predatoria per stabilire con gli esseri umani rapporti di intimità diversi da quelli che intercorrono tra un carnivoro e il suo cibo. Il leone in libertà ovviamente non ha nulla del felino domesticato. È un animale che risponde solo all’istinto e all’organizzazione funzionale del branco. Le sue esigenze affettive sono tutte risolte dai suoi simili e a quelle alimentari provvede invece l’ambiente, posto che sia integro. Il modo in cui vivono i grandi predatori visto in purezza la giudichiamo feroce – è così che si parla del leone, della tigre, dei felini maggiori, no? Son bestie feroci – ma è un moraleggiare stupido e antropocentrico: il leone ragiona secondo le sue esigenze e la sua cultura ferina, trasmessa di generazione in generazione per sintesi genetica ed empirica. Se le sue condizioni ambientali sono ottimali, il leone non è una bestia che sta bene o che sta male: sta da leone. A volte mi domando se non sia proprio il suo essere leone che ci spaventa, quel suo arrogante non avere alcun bisogno di noi per esistere.
Forse tu sai la risposta. Pensaci, puoi farlo anche mentre mi guardi così, con quel misto di fierezza e disprezzo che mi fa sentire una cosa insufficiente, ma necessaria. So che non tutto quel che vuoi è in quel che vedi in me, ma quel che vedi in me di certo lo hai voluto tutto.
La bellezza fiera del leone non ci deve niente, né può appartenerci, se non al prezzo di una caccia dove alla fine apparirà chiara l’evidenza che più di tutte ci piace negare: che il predatore vero siamo noi umani, noi siamo la belva feroce dominante che non lascia scampo alla specie inferiore, fosse pure quella del cosiddetto re della foresta. Mi ha sempre fatto ridere questo epiteto, questo apparente rispettare il leone con pomposi titoli onorifici, ma solo dopo avergli dimostrato chi davvero è il più forte. “Restare umani” è un’espressione che ho sentito spesso usata come un richiamo a una presunta umanità compassionevole, accogliente e premurosa verso le debolezze altrui. Ma questa umanità in natura non esiste. Noi siamo la specie dominante del pianeta, l’unica a non avere più predatori, proprio perché non abbiamo avuto compassione di niente e di nessuno. Non siamo diventati padroni del mondo invitando le altre specie a bere il tè sul divano. Le abbiamo mangiate, cacciate per bisogno o divertimento o estinte perché il loro ambiente ci serviva per viverci o per sfruttarlo. Se qualcosa sopravvive alla nostra ferocia è solo perché ci serve per nutrirci, per lavorare al posto nostro o perché è tanto bello da potercene fare ornamento, da vivo o da morto non fa molta differenza.
Come sei bella. Me lo dici sempre. Sei bellissima. Non so se è vero, non credo, ma mi piace che lo pensi. Mi sembra ti renda più indulgente davanti a certi miei moti di carattere che ti sembrano intemperanze. Non sono tanti, quei moti. Forse erano di più una volta.
Ma torniamo al leone. Non lo mangiamo, né ci serve per lavorare, ma la sua libertà deve esserci sembrata nei decenni scorsi abbastanza irritante da desiderare di levargliela. Ne sono rimasti pochi vivi e liberi. Adesso li proteggiamo. Non credo sia una presa di coscienza pietosa. Mi appare invece l’apoteosi del potere della nostra specie sulla sua: cosa c’è di più arrogante che averlo reso così debole da aver bisogno della protezione dell’unica razza che in realtà poteva minacciarlo? Che chieda a noi aiuto, che riconosca la sua sudditanza fragile e che ci sia a modo suo anche grato per la valente protezione che gli offriamo da noi medesimi. Se il leone capisse questa finezza crudele, forse il suicidio gli apparirebbe soluzione più nobile. Ma mi piace pensare che non comprenda. L’inconsapevolezza è una piccola libertà, ma è libertà comunque.
Non come me, che invece capisco tutto. Non come me, che nell’istante esatto in cui capisco, misuro anche lo spazio di cui dispongo. Non è molto, ma non dici sempre che ho tutto quel che una donna può desiderare? A partire da te, del resto.
Gli esseri umani hanno uno strano modo di trattare gli animali. Non per tutti valgono le stesse regole. Li ho guardati spesso agire con le bestie come bestie o come umani con animali trattati come umani e ho capito una cosa semplice, ma che non dice nessuno: non esistono protocolli di rispetto che non siano collegati a quello che noi vogliamo dalle bestie. Per questo abbiamo tre nomi per chiamare gli animali e dipendono dai rapporti che siamo noi a scegliere di avere con loro. Così gli animali possono essere d’affezione, domestici o selvatici e a seconda di quale sia la casella in cui ricade ogni singola bestia, il suo destino cambia completamente. Gli animali d’affezione, per esempio, sono i cani e gatti che consideriamo parte della vita familiare più intima. Non li mangiamo, anzi diamo loro da mangiare. Non devono cacciare né rubare, non devono uccidere: uccidiamo noi per loro o paghiamo chi lo fa e lo inscatola. Hanno nomi propri a cui rispondono, i cani forse più dei gatti, ma entrambi sanno di averlo. Hanno accesso ai nostri spazi, alla casa dove viviamo, al divano, persino alla camera da letto. Compriamo loro oggetti per giocare, per mangiare e per dormire, li laviamo, li portiamo dal medico se stanno male, decidiamo noi se possono o no riprodursi e con chi, li curiamo come familiari e quando muoiono li piangiamo altrettanto. Li amiamo e quindi pensiamo noi a tutto, non devono preoccuparsi di nulla. Appartenere è anche questo.
Pitocchetto (Giacomo Ceruti)
Ritratto di fanciulla con ventaglio
È bella la collana che mi hai regalato, certo che lo è. È delicato il ventaglio che hai fatto confezionare e la sarta che hai pagato per cucirmi quest’abito aveva proprio mani d’oro. Non ho mai chiesto niente di tutto questo, ma è proprio per questo che la gratitudine deve essere doppia: tu indovini quello di cui necessito senza che ci sia bisogno di dirtelo. Del resto, non ricordo che tu me lo abbia domandato.
Gli animali domestici sono una strana categoria di bestie. Non sono animali estranei, talvolta hanno persino un nome, ma quel nome non cancella la ragione del loro mantenimento in vita: produrre per noi cibo o lavoro. Li nutriamo, ma a nostra volta ce ne nutriamo o li sfruttiamo. Galline, oche, volatili da cortile, il maiale di casa ingrassato per l’autunno, la conigliera piena di pellicciotti che diverranno salmì, le mucche nella stalla, le pecore al pascolo, le capre al brado, i cavalli da traino, i cani da pastore. Sono domestici perché asserviti e necessitano di noi per molte cose, ma non è l’amore la matrice del rapporto che ci lega a loro. Per questo sono intercambiabili, un modo delicato per dire che valgono solo finché servono.
Esistono rapporti tra persone che somigliano a questi. A essere sincera ho visto persone non avere altro che questo tipo di rapporti. Non è sorprendente. Essere utile a pensarci non è male, purché non ci pensi troppo.
Gli animali selvatici, l’ultima categoria, sono quelli che preferisco. Non sono legati a noi da alcun rapporto di dipendenza. Non mangiano grazie a noi, non si curano grazie a noi e non è per grazia nostra che stanno al mondo. Non li abbiamo selezionati in razze. Non hanno un nome che noi possiamo pronunciare. Non vivono sotto i nostri tetti né occupano gli spazi dei nostri cortili, ovili, stalle e scuderie. Non hanno bisogno di noi. Credo sia per questa ragione che verso di loro è possibile qualunque azione, anche quella che rivolta alle altre categorie animali non sarebbe nemmeno pensabile. La caccia non si fa alle bestie domestiche e sparare a quelle d’affezione è addirittura reato. Ma verso gli animali liberi non esistono limiti: tutto ciò che non controlliamo non richiede nemmeno che a controllarci siamo noi. L’essere umano ama solo la bestia che ha privato totalmente della sua libertà. Soltanto ciò che è domestico accede alla categoria in cui l’uomo non si diverte più a spararti per gioco e solo ciò che è amato ha il diritto di non essere ucciso per un’utilità. Farsi amare è questione di sopravvivenza. Più libertà perdi, più sicurezza guadagni. È così che funziona nel mondo degli umani: ciò che ti protegge e ciò da cui devi proteggerti sono spesso la stessa persona.
Pensa come sarebbe bello un leone domestico. Una fiera, la più fiera di tutte, indebolita al punto da venire fino al tuo uscio a grattare per dirti: aiutami tu. È un desiderio così forte e così impossibile da meritare di farci una leggenda. Un leone ferito che si sottomette a un uomo per farsi levare, che so, una spina da una zampa. E poi per gratitudine restare a servizio, a fare quello che in natura è l’impossibile: il leone da pastore, il guardiano del gregge, un mestiere da cane per chi cane non è. Immagina che esista un leone così e vedrai che esisterà. Con gli occhi bassi e la criniera a tua disposizione, se puoi pensarlo è già lì. Magari non ti sembra possibile, chi crederebbe che una creatura così fiera e nobile, così uguale a te nel suo essere diversa, possa ridursi a un simile stato? È una storia a cui nessuno darebbe credito, ma di fatto è proprio questo che la maggioranza delle persone fa: crede alle storie sui leoni.
A volte penso che devo essere stata leone in un’altra vita. Nei sogni mi sembra a volte di sentirmi ruggire.
Poi mi giro nel letto ed eri tu che russavi.
Biografia dell'autore

Michela Murgia è nata a Cabras nel 1972. Scrittrice, ha seguito studi teologici ed è stata insegnante di religione, educatrice
e animatrice nell’Azione Cattolica.
Ha esordito con Il mondo deve sapere (Isbn 2006), diario tragicomico di un mese di lavoro che ha ispirato il film di Paolo Virzì ‘Tutta la vita davanti’. Per Einaudi ha pubblicato, tra gli altri: Viaggio in Sardegna (2008), il romanzo Accabadora (2009, Premio Campiello 2010), Ave Mary (2011) e L’incontro (2012). Dal 2011 è socia onoraria del Coordinamento Teologhe Italiane e collabora con molti periodici e quotidiani. Nel 2013 insieme a Loredana Lipperini ha scritto L’ho uccisa perché l’amavo (falso!) (Laterza). Chirù (Einaudi, 2015) è il suo ultimo romanzo.
A giugno 2016 è uscito per Einaudi il saggio Futuro interiore, analisi della generazione degli anni Settanta.
Ha una rubrica fissa su Donna Moderna e su Il Messaggero di Sant’Antonio.
Ha partecipato al programma Quante Storie di Corrado Augias e ha condotto, sempre per Rai 3, il programma Chakra.
Nel 2017 ha esordito a Teatro con ‘Quasi Grazia’ un testo di Marcello Fois, nel ruolo di Grazia Deledda.
I suoi libri sono tradotti in più di venti lingue.
I suoi ultimi libri sono Istruzioni per di-ventare fascisti (Einaudi, 2018) e Noi siamo tempesta (Salani, 2019), vincitore del Premio Andersen 2019.
Insieme a Chiara Tagliaferri ha scritto Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (Mondadori, 2019).
Biografia del narratore

Si forma giovanissima alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi e segue il lavoro di Carmelo Bene, Luca Ronconi, Thierry Salmon, Romeo Castellucci, Cesare Ronconi. Fonda insieme al regista teatrale Renzo Martinelli la compagnia Teatro Aperto, oggi Teatro i, che gestisce l’omonimo spazio a Milano, una vera e propria factory del teatro contemporaneo. In teatro ha lavorato tra gli altri con Valerio Binasco, Valter Malosti, Antonio Latella, Luca Micheletti, Sonia Bergamasco, Andrea Chiodi e ha ricevuto numerosi premi come miglior attrice protagonista: Premio Ristori, Premio Olimpici del Teatro, Premio della Critica, Premio Franco Enriquez, Menzione d’onore e Premio Eleonora Duse, Premio Ubu. Nel febbraio 2019 è protagonista de La Monaca di Monza di Giovanni Testori, diretta da Valter Malosti. Nella stagione 2019/2020 è Cassandra inEcuba di Marina Carr per la regia di Andrea Chiodi. E’ una delle protagoniste della serie tv Luna Nera, prodotta da Fandango e Netflix.
Opere a cui è ispirata questa storia
Collocazione riproduzioni
Humanitas Gavazzeni B2 Alcune immagini sono state scattate prima del DPCM del 23 febbraio 2020.