Avrò dormito tre giorni, anche se più che dormire credo di aver fatto un salto lunghissimo all’indietro.
Tre giorni di sonno mi sono serviti per andare a riabbracciare tre fantasmi, tre cari fantasmi della mia vita – tre candele consumate a metà che sono riuscita a riaccendere.
Un attimo dopo ho aperto gli occhi. Il risveglio me lo aspettavo nel letto accanto a mia figlia e invece sono in una camera chiara, luminosa di occhi su di me, in un ospedale che non conosco. Qualcuno mi ha fatto una traccia sul braccio. Un disegno.
Un uomo che da lontano mi fissa i piedi, non parla. Mi conoscerà da poco forse, altrimenti starebbe già parlando da chissà quanto tempo. Non c’è situazione migliore di questa per darsi il permesso di dire tutto. Chissà quanta gente è venuta a confessarsi al mio capezzale, peccato che non ho mai potuto fare “buu! …e ora? Come la mettiamo? Ho sentito tutto, sai? Che ridere…”
Forse io e il tipo che mi fissa i piedi avremo fatto l’amore qualche volta, non ricordo. Mugugno. Tutti gli occhi luminosi mano a mano che prendo coscienza si trasformano in girini che scodinzolano veloci sulla retina degli occhi e trasportano il mio sonno verso gli angoli della memoria. Allora ok! Sono viva. Ricominciamo. Ringhio, non riesco a sciogliere le mascelle, non riesco a chiedere a quell’uomo chi è, non riesco a non avere paura di essere rientrata in un corpo che sento come di cartongesso – avrò ancora le vene, il sangue, del cibo nello stomaco?
Mia madre, mio nonno, mia figlia. Morti nell’ordine in cui li ho ritrovati. Penso solo a quelle tre candele che ho riacceso per un attimo e mi accorgo di pensare e di essere davvero ritornata in vita. Non mi muovo e tutto intorno a me gira.
“Gli animali si fidanzano”? mi torna alla mente la voce di Roberta, mia figlia.
“No amore, gli animali conoscono solo l’amicizia non l’amore” ma che risposta le ho dato! Spero di averle dato risposte migliori in passato.
La malattia, quando arriva può essere rara come un airone, oppure definita, come il tratto di una matita grossa su carta da pane – certe malattie sanno disegnare benissimo.
Hanno le proporzioni del dolore e le sfumature della pelle, di quando gradualmente si scurisce, oppure diventa bianco ossa.
C’è finanche un momento in cui il volto malato si leviga e brilla, brilla come fanno le saline dopo la pioggia – e allora anche se è inverno dentro, inspiegabilmente si diventa più belli!
Una presa in giro che dura poco però. Pochissimo.
A lungo ho parlato alla Malattia della mia bambina, e Quella, la prima cosa che ha fatto, è stata mettere i miei organi in bianco e nero e fare diventare Me e le mie certezze una trama buona per un film muto.
“Mangia me… mangiami il fegato, i reni, le ossa… prendi me, non toccare più lei” ma da me Quella non ha mai voluto niente.
Ho capito anche che La Malattia che segna un corpo bello fa più male della malattia che segna un corpo brutto – senza ipocrisia alcuna, penso che quando ad ammalarsi è un corpo bello, un corpo di bambino, è come se in qualche modo venisse sconfitto Dio.
Ancora prima dell’incidente parlavo poco e l’unica cosa che mi veniva facile era ricordare. Alle brutte, un ricordo buono è sempre utile per stirare le pieghe alla giornata.
Con gli occhi faccio un giro sul mio corpo, vedo con piacere immenso che intorno al collo mi hanno lasciato la collanina con l’amuleto che mi ha donato il nonno, prima di andare via.
Dentro è inciso il volto della Madonna. Era un bravo incisore nonno Mario. Quella collanina era il mio gioco d’infanzia. Lui l’aveva resa speciale perché era l’unico legame rimasto con mia madre. L’unico momento in cui mi sembrava di appartenerle.
Che tipo strano nonno Mario! Pareva un Rabbino per come si vestiva.
L’uomo che mi guarda i piedi invecchia a ogni mio movimento. Mi spavento “spegniti candela. Vai in pace” gli dico. Anche lui probabilmente è il frutto del mio lungo sonno altrove. Svanisce dopo qualche mio tentativo di chiudere e aprire gli occhi velocemente. Sono viva ok! Mi ripeto. Ricominciamo da capo.
Almeno due volte al giorno, dopo la riabilitazione, l’amuleto di nonno Mario scende nella curva che si forma tra il pollice e l’indice della mia mano aperta e risale per fermarsi sul palmo. Il volto della Madonna ruota oppure oscilla sulle linee frastagliate della mia vita e provo a decifrare le mie sorti per come si muove. Me lo insegnò nonno, ed è proprio così che in questo nuovo inizio, nei giorni di ripresa in ospedale, mi sono creata un tempo diverso – il mio. Il tempo ora è tutto nei giri che fa l’amuleto di mio nonno sulla mia mano.
Giovanni Pezzotta
La memoria del nonno
“Bisogna essere dei perditori almeno una volta nella vita per capire di cosa è fatto il dolore” diceva il Rabbino Mario – e per me il dolore, ora che mi ero svegliata, stava nel vuoto.
Il vuoto, specie negli ultimi tempi, si era fatto come della stessa inconsistenza della sera. Se poggiavo la testa alla sera, cadevo.
Non muovo ancora bene le gambe, l’ultima volta che l’ho fatto è stato di sera, per venirti a salutare, bambina mia. Di quelle ore verso la tua camera di ospedale, ricordo esattamente il gonfiore della luna. Una luna tiroidea, che da un momento all’altro avrebbe smesso di trattenere non so cosa! Anche la barba del nonno si gonfiava spesso, soprattutto quando la dimenticava per giorni appesa al mento e non si curava nemmeno di profumarla. Per giorni, quella barba poteva diventare un deposito di briciole e parole, parole di guerre combattute, persone salvate, canzoni inventate durante il riposo dalle armi, e nonostante il cattivo odore di tabacco bruciato, quando lo abbracciavo era come stare al cospetto di Dio. Respiro, ora va meglio. Devo esercitarmi di nuovo a vivere.
“Respira, datti il permesso” mi ripete Luca il mio fisioterapista.
“La conosci la favola di Riccia d’oro e Stella d’argento?” chiedo.
“No” dice lui mentre sistema l’imbracatura che mi tiene in piedi.
Mio nonno negli ultimi anni della sua vita, quando io ero già grande e lui era quasi alla fine, me la raccontava in continuazione.
Entrava in camera mia (vivevamo assieme) e mi diceva sempre la stessa cosa: “Azzurra, la conosci la favola di Riccia d’oro e Stella d’Argento”?
“No, nonnino, non la conosco… raccontamela” mentivo solo per farlo felice. Così la magia del suo amuleto poteva ancora raccontarmi la storia di mia madre.
Mi accovacciavo su di lui, come si accovaccia oggi il suo ciondolo nella mia mano, e prima di farsi abbracciare, sistemava il suo palcoscenico privato a nord della stanza, a nord del mio cuore, tirava la poltrona in avanti, si curvava per sedersi e solo un attimo prima di aver messo al sicuro le sue fragili ossa, posava il bastone sul mobiletto in legno antico e così facendo, si metteva comodo per accogliermi finalmente tra le sue braccia. Ricordo perfettamente i respiri di pace e di cura che facevo addosso al suo morbido pancione. Era una quercia e insieme eravamo come in un quadro perfetto.
“La memoria del nonno, guardalo… sembriamo io e lui. Sembra che qualcuno ci abbia spiati per poi dipingerlo.
È bellissimo”.
Luca annuisce incantato dal ciondolo che gli mostro.
Per mio nonno ero come tornata bambina, una bellissima bambina di sette anni con ancora il vestitino azzurro mare addosso e i capelli biondissimi. Mi piaceva così tanto quel vestitino che anche adesso ne ricordo i dettagli, le sfumature.
Ricordo bene il suo cappello un po’ consumato ai bordi e questo amuleto che prendeva sempre tra le mani come per fare una magia, ed era davvero magico ascoltarlo raccontare: C’era una volta una bambina biondissima che non aveva più la sua mamma. Viveva in un villaggio lontano, molto lontano e tutti la chiamavano Riccia d’oro per via dei suoi meravigliosi capelli gialli come l’oro…
Delle volte Riccia d’oro riusciva con la magia dell’amuleto a viaggiare nel tempo per riabbracciare la sua mamma, Stella d’argento, altre volte invece no, perché il nonno cambiava il finale e succedeva che l’anima della mamma trovasse casa proprio dentro all’amuleto di Riccia d’oro, nel volto della madonnina incisa delicatamente nell’oro. Cioè dentro al mio cuore, voleva dire.
Anche la mia bambina aveva un cuore d’oro.
L’ultima volta che ti ho vista avevi finito da poche ore la chemioterapia, da poco avevi ripreso ad abbracciarmi senza fili che potessero imbrogliarci.
La malattia è sempre un imbroglio. Anche la sera lo è. Pensi di avercela fatta, di aver finito il tuo dovere invece è proprio nelle ore del riposo che il corpo prende le decisioni più importanti. “Chissà da quanti anni non dico più ti amo” mi rivolgo ancora a Luca che mi regge dalle spalle e mi insegna di nuovo a muovere i primi passi.
“Fallo ora” dice lui, sfottendomi.
“Ti piacerebbe” e tiro fuori una linguaccia.
“Raccontami dell’incidente… ricordi qualcosa”?
“Mi sono persa uscendo da un bagno pubblico, cercavo la strada per raggiungere la macchina, avevo da poco salutato mia figlia, era sera, ero disperata. Un figlio non può ammalarsi prima di sua madre. Mia figlia sembrava più vecchia di me. Così, senza riuscire nemmeno ad alzare lo sguardo dalle monete che avevo lasciato alla signora che era di guardia all’ingresso dei bagni, un motorino mi è salito addosso, fracassandomi le ossa del bacino. Avrò fatto un rumore come nei film”.
“Sono stato io a disegnarti sul braccio” dice Luca.
Lo guardo meravigliata. Non capisco.
“Sì… ho ricalcato un disegno che avevi già. Mi hanno detto i tuoi amici che te lo ha fatto Roberta l’ultima volta che vi siete viste. Volevo che lo ritrovassi al tuo risveglio”.
Annuisco. Ricordo. Ricordo tutto. Lo ringrazio. Lui si commuove. Guardo la mappa che mia figlia ha disegnato sulla mia pelle. Diventerà un tatuaggio, dico a Luca, piangendo.
Sussurro: “la mamma è sempre con te bambina mia” e se è vero che la morte si sconta vivendo, allora io vivrò il più possibile per venirti a riabbracciare.
Biografia dell'autore

Dora Albanese è nata a Matera nel 1985 ma vive a Roma. Da anni collabora con Rai Uno come inviata e come consulente e autrice. In particolare con i programmi Unomattina in famiglia, Vita in diretta, Tuttochiaro.
Per Rai Cinema ha scritto e condotto due documentari, Berlino la Mutante e Praga l’Arcana.
Per il teatro ha scritto monologhi insieme all’attrice Annalisa Insardà dal titolo Malapelle, Ero Mia contro la violenza sulle donne, Dio ha gli occhi belli sulla sindrome di Rett.
Nel 2009 ha pubblicato la raccolta di racconti Non dire madre per Hacca.
La Scordanza, edito da Rizzoli, è il suo primo romanzo. La sua firma è presente in varie antologie italiane.
Sta scrivendo il suo nuovo romanzo, sempre per Rizzoli.
Opere a cui è ispirata questa storia
Collocazione riproduzioni
Humanitas Gavazzeni A1 Alcune immagini sono state scattate prima del DPCM del 23 febbraio 2020.